MIMESI, SIMULAZIONE E IMPOSTURA NEI SISTEMI DIGITALI AUTO-ORGANIZZATIVI

Non solo le neuroscienze, ma anche lo spesso sottovalutato pensiero francese tardo-novecentesco hanno dedicato molta attenzione al fenomeno tipicamente umano della simulazione, del mimetismo congenito, che peraltro contraddistingue anche tutti i sistemi digitali auto-organizzativi realizzati dall’uomo (in primis, naturalmente, l’intelligenza artificiale)

 

La simulazione digitale

Kazuo Ishiguro e il suo robot

Kazuo Ishiguro e il suo doppio robotico

I sistemi digitali che oggi destano tanta ammirazione (machine learning, large language model, robot, eccetera) condividono tutti la caratteristica fondamentale di essere profondamente mimetici. Imitano i nostri processi produttivi (si veda al riguardo il bel saggio di Matteo Pasquinelli, The Eye of the Master, Verso, London, 2023), la nostra capacità di calcolo, il nostro linguaggio, il nostro pensiero, la nostra operatività fisica (robotica), a volte persino le nostre espressioni artistiche. In alcuni contesti possono essere molto più efficienti di noi (ad esempio nel calcolo) in altri molto meno (sicuramente nell’espressione artistica) ma sta di fatto che a fondamento di tutta questa magnifica avventura digitale c’è la nostra innata propensione o istinto per la mimesi che per l’appunto trasferiamo alle nostre creazioni tecnologiche. Eppure, a parte rari casi, quando si tratta di sistemi digitali questo aspetto della loro origine mimetica è abbastanza poco trattato; credo che in parte ciò sia dovuto al fatto che noi umani amiamo tanto occuparci di innovazione, novità, cambiamento proprio perché sotto sotto ci vergogniamo della nostra natura originaria profondamente simulativa. Oggi sappiamo, peraltro, che quasi sempre il processo creativo prende le mosse da una fase di imitazione sistematica, ma, appunto, anche questa è una cosa che non bisogna dir troppo in giro.
Il tema della mimesi è invece centrale in ambito neuroscientifico, laddove la scoperta dei neuroni a specchio ha occupato il centro del palcoscenico per parecchio tempo. Oggi qualcuno dubita della loro stessa esistenza, ma resta indubbio che la funzione mimetica è fondamentale nelle dinamiche psicologiche dell’essere umano, come ha ad esempio dimostrato il lavoro di Andy Meltzoff sull’imitazione nei neonati.
Qui però non voglio soffermarmi sulle neuroscienze, bensì sullo spesso ingiustamente sottovalutato pensiero francese del tardo Novecento, che ha spesso posto proprio la simulazione al centro delle proprie riflessioni speculative. Come al solito, conviene partire dall’inizio.

Gli indiscussi e i discussi

Jean Baudrillard

Jean Baudrillard

Quando si parla di pensiero francese tardo-novecentesco, alcuni storcono il naso. A parte pochi eletti (Foucault, Ricoeur, Merlau-Ponty, Girard, Thom…) cui tutti chi più chi meno rendono omaggio, gli altri vengono accusati di eccessiva verbosità, voluta oscurità delle argomentazioni e smodato desiderio di épater les bourgeois. Più meno le stesse critiche che in ogni tempo vengono riservate ai maestri dell’arte retorica, o presunti tali. E pensare che i nomi sono eclatanti: Louis Althusser, Jean Baudrillard, Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Felix Guattari, André Gluksmann,  Bernard Henry-Levy, Paul Virilio, e altri.
Eccezion fatta per Henry-Levy (il più bel décolleté di Francia, come lo chiama un mio amico) che trovo davvero troppo salottiero e non mi ha mai lasciato nulla su cui riflettere il giorno dopo, in merito agli altri non condivido affatto la severità del suddetto pre-giudizio, e con ottimi motivi. Anzitutto questi pensatori sono spesso ‘divertenti’, nel senso che il loro gusto per il coup de théâtre, l’affermazione tranchant, il motto di spirito inaspettato e l’imprevedibile in ogni sua manifestazione rende la lettura avvincente, mai scontata. Sempre in equilibrio tra sublime e ridicolo, costoro amano scherzare, esagerare, non hanno paura di nulla, e anche per questo li si legge col sorriso sulle labbra. In merito alla loro innegabile verbosità, poi, penso sia compito dei filosofi espandere il linguaggio ordinario, spesso così angusto e limitato, sino alle sue estreme conseguenze, per spingersi al di là del senso comune e tentare nuovi percorsi; a volte ci riescono, a volte no, ma l’intenzione è lodevole. C’è infine il punto più importante: alcune delle loro intuizioni sono illuminanti e a volte – teniamoci forte – persino ‘vere’. Tutt’altro che retori, quindi.

A questo punto ritengo doveroso rivelare le mie personali preferenze, che nel gruppo di codesti retori francofoni vanno a Gilles Deleuze, di cui ricordo ancora con emozione un vecchio libro sulla ‘piega’ nell’arte barocca, a Paul Virilio, la cui dromologia e la scansione ‘catastrofica’ del tempo sociale hanno fatto meritatamente scuola, e infine quello che secondo me è il vero maestro di tutti costoro, vale a dire Jean Baudrillard. Infinitamente creativo nell’uso del linguaggio e nella creazione di straordinari neologismi (rido ancora pensando al suo conio ‘immondializzazione’ al posto del più scialbo e corrotto ‘globalizzazione’), ha formulato alcuni concetti che restano nella storia della filosofia e sociologia moderne, come quelli di scambio simbolico e di precessione dei simulacri. Inoltre, Baudrillard ha avuto la sorte di scrivere il libro più incredibilmente profetico che abbia mai letto, ovvero Simulacres et simulation. Un saggio del 1981 che sembra scritto in stato di trance e che vaticina con straordinaria precisione persino i tratti distintivi della nostra ultima avventura tecnologico-concettuale, ovvero l’ascesa dell’Intelligenza Artificiale.

Girard, Baudrillard e l’uomo mimetico

René Girard nella sua biblioteca

René Girard nella sua biblioteca

Riflettendo sul pensiero di Baudrillard, maestro del gruppo dei filosofi francesi ‘discussi’, mi sono accorto che aveva moltissimi punti in comune con quello del mio pensatore preferito nel gruppo dei francesi ‘indiscussi’, ovvero René Girard. A proposito di quest’ultimo, apro e chiudo subito una parentesi ricordando che persino Gianni Vattimo, principale esponente del cosiddetto ‘pensiero debole’, ammirava profondamente un pensiero fortissimo, fondato com’è su una infinita serie di dati antropologici, come quello di Girard.
In breve, a un certo punto ho preso coscienza del fatto che tanto il mio filosofo francese preferito nel gruppo degli indiscussi – Girard – quanto il preferito nel gruppo dei discussi – Baudrillard -, convergevano su un fondamento comune delle loro riflessioni, che potremmo definire il carattere mimetico dell’esperienza umana. L’uomo è un animale mimetico. Siamo così concentrati sulla novità, la creatività, l’innovazione, eccetera, proprio perché in realtà la nostra natura umana è radicata nell’esatto contrario, nel mimetismo, l’imitazione o ancor meglio la simulazione, e da ciò derivano tutta una serie di importanti conseguenze.
Si parla in questi casi di ‘pensiero mimetico’, e per capire di cosa si tratta vale la pena di seguire il percorso concettuale di René Girard. Vedremo poi che Baudrillard ne raccoglierà il testimone per trarne alcune sorprendenti conseguenze.

Il pensiero mimetico di Girard

Copertina del saggio Menzogna romantica e verità romanzesca di René Girard

Menzogna romantica e verità romanzesca

René Girard nasce ad Avignone il 25 dicembre del 1923 da una famiglia di intellettuali: il padre Joseph fu direttore del celebre Festival di Avignone, ruolo che consentirà al figlio di entrare in contatto già da giovane con molti tra i più begli intelletti di Francia.
Nel 1947 René Girard si trasferisce negli Stati Uniti. All’inizio insegna francese all’Università dell’Indiana dove peraltro ottiene un dottorato di storia con una tesi sul modo in cui gli americani consideravano i francesi durante gli anni del conflitto mondiale. Deciso a fare carriera in ambito universitario, nel 1960 torna ad Avignone per nove mesi durante i quali scrive il suo primo saggio, Menzogna Romantica e Verità Romanzesca, un piccolo capolavoro dal quale per l’appunto bisogna cominciare.

Il titolo è un po’ farraginoso, almeno secondo me, ma il contenuto si rivela subito originalissimo. Si tratta di uno studio di letteratura comparata incentrato su una tesi che emerge con chiarezza sin dalle prime righe e viene poi sviluppata nel resto del libro: se esaminiamo con attenzione molti capolavori della letteratura mondiale, da Cervantes a Flaubert, da Stendhal a Proust e Dostoevskij fino a Hemingway e Faulkner, ci accorgiamo che parlano quasi sempre di una cosa sola, ovvero del desiderio, delle dinamiche tipiche del desiderio umano. Di questo e solo di questo parlano i grandi scrittori, girano sempre intorno alla stessa cosa. Del resto, al centro di tutte le vicende umane c’è sempre il desiderio, in tutte le sue forme e manifestazioni, e se questo ci fa venire in mente la dottrina del Buddha, non vi è nulla di sorprendente o scandaloso.

È per il desiderio che il mondo è legato.
Per l’assoggettamento
del desiderio che è liberato.
Tramite la rinuncia
al desiderio che si possono troncare
tutti i legami.

[Canone Pali, Sn 1.69, Iccha Sutta – Il desiderio.]

La grande letteratura, dice Girard, è tale proprio perché va fino in fondo nella descrizione e analisi dei sentimenti umani, tra i quali primus inter pares è per l’appunto il desiderio, fragile ma potentissimo filo che intesse la trama delle nostre vite. Fin qui, interessante, ma nessuno cade dalla sedia. Il bello viene dopo: esaminando con attenzione le interazioni tra i personaggi romanzeschi emerge in particolare la natura triadica, triangolare del desiderio. Noi siamo ingenuamente abituati a considerare il desiderio come una relazione a due che intercorre tra un soggetto desiderante e un oggetto desiderato; ci illudiamo che i nostri desideri emergano spontaneamente secondo il nostro carattere e le nostre inclinazioni, ma le cose non stanno così. Il desiderio autonomo è un evento rarissimo. Nella grande letteratura – osserva Girard – troviamo continuamente casi in cui il desiderio è mediato da un modello di riferimento. Così, per esempio, Don Chisciotte desidera essere un cavaliere errante perché ‘imita’ il suo modello cavalleresco per eccellenza, Amadigi di Gaula; non desidera autonomamente una vita da cavaliere, bensì la desidera perché quella vita è ciò che ha desiderato e incarnato Amadigi, il tipo umano ideale cui vorrebbe assomigliare. Il rapporto tra Don Chisciotte e l’oggetto del suo desiderio non è diretto, bensì mediato da un modello cavalleresco: egli imita Amadigi e per questo ambisce ad essere un valoroso cavaliere errante. Allo stesso modo in Flaubert Emma Bovary desidera l’amore romantico non perché questa aspirazione sia in lei innata, bensì perché imita le eroine dei mediocri romanzetti che leggeva da giovane. A questo proposito Girard cita Jules de Gaultier, inventore dell’espressione ‘bovarismo’:

gli eroi flaubertiani si propongono un ‘modello’ e imitano, del personaggio che hanno deciso di essere, tutto quello che è possibile imitare, tutta l’esteriorità, tutta l’apparenza, il gesto, l’intonazione, l’abito”.

La stessa dinamica del desiderio mimetico, ovvero sempre istigato e indirizzato da un modello di riferimento, vale per lo stendhaliano Julien Sorel che imita Napoleone, per le passioni che animano i personaggi di Proust, per il Pavel Pavlovič dell’Eterno Marito di Dostoevskij e insomma un po’ per tutti i grandi personaggi della letteratura mondiale. I casi di desiderio autonomo, non mediato da un modello, sono rarissimi e proprio in quanto tali sono indice di nobiltà. È un’osservazione decisiva: la nobiltà per Girard è per l’appunto questa capacità di desiderare autonomamente, nobile è colui che sceglie da sé l’oggetto del suo desiderio. Trovo questa la più bella definizione di nobiltà autentica in cui mi sia imbattuto; mi spiace per De Maistre, Evola e compagni, ma qui Girard li batte per distacco.

Girard distingue poi due tipi di modelli mimetici capaci di orientare il desiderio: da un lato c’è il ‘mediatore esterno’, come Amadigi per Don Chisciotte, che è fuori dal raggio d’azione, dalla portata del soggetto desiderante. Da questo punto di vista il prototipo assoluto della mediazione esterna è l’Imitatio Christi, giacché sia per epoca storica che per virtù personali Gesù Cristo si trova ben al di là della portata del buon cristiano, volenteroso sinché si vuole ma inevitabilmente limitato.  Alzi la mano chi pensi di aver successo nel suo personale programma di Imitatio Christi

William Shakespeare

William Shakespeare

Dall’altro lato c’è invece il cosiddetto ‘mediatore interno’ che al contrario si trova molto più vicino, alla portata del soggetto desiderante. Il tipico mediatore interno è la figura dell’amico, colui che, pur essendo vicino a noi, incarna determinate caratteristiche e qualità che ne fanno un modello capace di indirizzare il nostro desiderio. Il caso dei due amici che si innamorano della stessa donna, ad esempio, compare spesso in quasi tutte le opere di Shakespeare: uno dei due amici, che rappresenta il modello, il mediatore, confessa all’altro di essersi pazzamente innamorato di una certa fanciulla e l’altro, spinto da un insopprimibile istinto mimetico che appartiene alla natura umana, non può fare a meno di innamorarsi a sua volta della medesima. Il contagio mimetico è immediato: ciò che tu vuoi lo voglio anch’io, ciò che sconvolge la tua anima farà lo stesso con la mia! A volte queste situazioni si complicano ulteriormente con triangoli amorosi che si innestano gli uni sugli altri in un’inestricabile ragnatela di relazioni amoroso-invidiose. Ma lasciamo parlare lo steso Girard, quando nel suo Shakespeare, il teatro dell’invidia analizza I due gentiluomini di Verona:

Valentino e Proteo sono amici di infanzia. Vivono a Verona e i loro rispettivi genitori vogliono che si rechino a Milano per proseguire gli studi. Innamorato di una ragazza di nome Giulia, Proteo si rifiuta però di lasciare Verona, e Valentino parte da solo.

Pur amando Giulia, Proteo sente la mancanza di Valentino e ben presto lo raggiunge a Milano. I due amici si ritrovano nel palazzo ducale. Al loro incontro assiste anche Silvia, la figlia del Duca, alla quale Valentino fa una rapida presentazione dell’amico. Dopo che la ragazza si è allontanata, Valentino confessa di amarla, e il tono appassionato e iperbolico delle sue parole irrita Proteo. Rimasto solo, anche Proteo ha comunque una confessione da fare: non ama più Giulia, anch’egli è innamorato di Silvia: 

Come la fiamma espelle un’altra fiamma
o un chiodo scaccia a forza un altro chiodo,
così del primo amor la rimembranza
da nuovo oggetto è affatto obliterata.

II, IV, 190-193

Se mai è esistito un ‘amore a prima vista’, dobbiamo pensare che sia questo; ma Proteo non ne è tanto sicuro. In tre versi emblematici propone una spiegazione diversa del desiderio che Silvia gli ispira:

Sono gli occhi miei o le lodi di Valentino,
la nobile perfezione di lei o la mia ignobile defezione,
che, sragionando, mi portano a ragionare così?

II, IV, 194-196

Il resto della commedia non fa che confermare il ruolo cruciale svolto da Valentino nella genesi dell’improvvisa passione di Proteo per Silvia. […] 

Potremmo definire il desiderio di Proteo mimetico o mediato. Valentino è il modello o mediatore, Proteo è il soggetto mediato e Silvia il loro oggetto comune. Il desiderio mimetico può colpire con la velocità di un fulmine, poiché in realtà non dipende dall’effetto visivo prodotto dall’oggetto. Proteo desidera Silvia non perché il loro breve incontro abbia lasciato su di lui un’impressione profonda, ma perché ha una segreta predisposizione per tutto ciò che Valentino desidera”.  [René Girard, Shakespeare, il teatro dell’invidia, Adelphi, Milano, 1998]

Più chiaro di così… Del resto lo sappiamo, se vogliamo che un nostro amico si innamori di una certa persona abbiamo un solo modo certo per riuscirci: confessare all’amico il nostro amore per quella persona innescando in lui il desiderio mimetico. Egli ci imiterà, comincerà a guardare l’oggetto del nostro desiderio con occhi nuovi e alla fine lo desidererà anche lui. Ogni bravo mezzano conosce e adopera questo vecchio trucco. E anche qui, alzi la mano chi non è mai stato personalmente testimone o protagonista di intrecci siffatti.

Se ci fermiamo a riflettere, è lo stesso meccanismo innescato dai pubblicitari, cui spetta il compito di proporre al pubblico un modello in grado di innescare il desiderio. Per questo quando viene scelto un testimonial, viene identificato un soggetto né troppo distante né troppo vicino al pubblico di riferimento, né troppo ‘esterno’ né troppo ‘interno’, in modo che possa scattare l’identificazione mimetica. La madre advertiser che infila quasi danzando il bucato nella lavatrice, non è molto diversa dalla reale madre di famiglia, solo un po’ più bella, un po’ più agile e guizzante, un po’ più sorridente; se è così, le reali madri consumatrici vi si possono facilmente identificare. Guai se invece la madre pubblicitaria fosse troppo fuori dalle righe, troppo bella, troppo diversa, alternativa: in tal caso solo una minima parte delle madri reali – quelle, appunto, bellissime e alternative – vi si potrebbero identificare. Girard ci insegna che il desiderio è sempre mimetico e i pubblicitari lo sanno, istintivamente, da sempre: sia che venga proposto un testimonial esplicito, sia che questi sia invece assente, la pubblicità consiste sempre e comunque nella presentazione di un modello virtuale e almeno apparentemente virtuoso che è in grado di innescare il desiderio mimetico nei potenziali consumatori.

Civetta

La civetta

Particolarmente brillante è l’analisi che Girard compie, sulla scorta di Freud, delle psicologie incrociate della ‘civetta’ e del suo pretendente. Come si sa la civetta è un uccello dai movimenti particolarmente aggraziati che i cacciatori usano per attirare gli altri uccelli; qui tuttavia ci si riferisce all’uso metaforico per il quale la civetta è una donna vanitosa che adora attirare l’attenzione degli uomini pur concedendosi di rado. Nell’analisi di Girard, il gioco si svolge in questo modo: la donna civetta è egocentrica e quindi ama se stessa molto più degli altri, ça va sans dire. Il suo ammiratore, vittima del suo stesso desiderio mimetico, la imita e quindi desidera ciò che la civetta stessa desidera, ovvero lei stessa. In breve, dopo questo primo ciclo la civetta ama se stessa, e il suo pretendente, imitandola, la ama a sua volta. Ma qui interviene il secondo ciclo perché in realtà, essendo anche la civetta soggetta alla legge del desiderio mimetico, ella imita il suo ammiratore e quindi ama se stessa ancora di più, è rinforzata nel suo egocentrismo. Attenzione però, perché dopo questo rinforzo il pretendente, che continua a imitarla, la desidera in misura ancora maggiore. E così via in una successione di cicli in cui la civetta si ama sempre di più e il desiderio dell’ammiratore nei suoi confronti si fa via via più violento. Il risultato di tutto questo è che, nello spietato mercanteggiamento della seduzione, il valore della civetta cresce continuamente, si ‘apprezza’, mentre quello del pretendente cala, si deprezza e tende a sfociare nel disprezzo. I due personaggi sono destinati ad allontanarsi progressivamente l’uno dall’altro, secondo una tendenza che Gregory Bateson chiamava schismogenesi simmetrica. Ecco perché, molto spesso, queste storie giungono a un inevitabile punto di rottura. Detto diversamente, finiscono male.

Di fatto tutta questa analisi psico-antropologica finisce per confermare il ben noto detto popolare “in amor vince chi fugge”. Sì, ma che profondità di analisi! Se facciamo per un attimo mente locale, non ci sarà difficile rintracciare questa dinamica nell’ambito delle nostre stesse esperienze di vita. Quante volte siamo caduti vittima di una civetta o ci siamo comportati noi stessi come una civetta? Girard si rese conto immediatamente che questa sua teoria del desiderio mimetico dava luogo a una conseguenza tanto ineluttabile quanto pericolosa. Essendo epidemico, il desiderio mimetico si trasmette da un individuo all’altro facendo sì che tutti i contagiati desiderino le stesse cose. E, siccome non tutti possono essere soddisfatti, è inevitabile che tra questi soggetti sorgano dei conflitti, cui Girard ha dato il nome di ‘conflitti mimetici’ o ‘conflitti di appropriazione’.
È questa la dinamica all’origine di tutte le contese umane, e si tratta di contese per l’appunto epidemiche che, in assenza di istituzioni collettive preposte a limitare il degenerare delle violenze, possono determinare il collasso di intere comunità umane. Per le etnie primitive le crisi innescate dal conflitto mimetico sfociano quasi sempre nel disfacimento del tessuto sociale.

I duellanti

I duellanti

Ne deriva una conseguenza solo apparentemente banale: gli uomini e i gruppi umani non si combattono, non competono continuamente tra di loro perché sono diversi e quindi inconciliabili, ma al contrario perché, desiderando tutti le stesse cose, sono troppo simili. L’origine etimologica del termine ‘rivali’ rimanda al latino rivus, fiume, proprio perché nel tempo antico le popolazioni che si affacciavano su rive diverse dello stesso fiume combattevano per il controllo dello stesso e quindi dei commerci che a quel tempo si svolgevano principalmente per via fluviale. Lo stesso significato è evocato dall’etimo del verbo ‘competere’, che deriva da cum petere, chiedere con, chiedere insieme, chiedere le stesse cose.

Nel corso del tempo la civiltà umana ha inventato alcuni brillanti ‘antidoti’ per fare in modo che il conflitto mimetico non finisca per distruggere le comunità umane. In primo luogo, c’è lo Stato, che secondo Girard è tale principalmente perché ad esso è conferito il monopolio dell’esercizio della violenza. Il potere esecutivo è il più importante tra i tre definiti da Montesquieu, quello senza il quale gli altri due non potrebbero esistere. Se non c’è potere esecutivo, se non c’è polizia o esercito, non c’è neanche lo Stato. Nelle società dotate di istituzioni statuali, i singoli cittadini o gruppi sociali non possono esercitare alcuna violenza, solo lo Stato lo può, e questo è deciso proprio per limitare i conflitti interni, le faide intestine, gli effetti distruttivi dei conflitti mimetici. Il contratto sociale di cui parlava Rousseau, secondo Girard riguarda soprattutto l’attribuzione allo Stato del monopolio della violenza.
Un altro antidoto è quello della produzione seriale introdotta dalla rivoluzione industriale e analizzata in ogni suo aspetto da Karl Marx. Se lo stesso identico oggetto è prodotto in grande serie, esso può soddisfare il desiderio di grandi moltitudini di individui, evitando che questi entrino in conflitto tra loro per appropriarsene. Soprattutto per quel che attiene agli oggetti, alle merci, il conflitto mimetico alligna soprattutto nelle economie della scarsità, non in quelle dell’abbondanza. In realtà poi la contesa si sposta dal campo degli oggetti a quello del grande mediatore universale, il denaro, ma questa è un’altra storia.
L’ultimo e più stupefacente antidoto è in realtà il primo, il più antico. Si tratta del rito sacrificale, ma discuterne ci porterebbe troppo lontano. Ricordiamo solo che tutti i concetti più celebri del pensiero di Girard – l’origine del sacro dalla violenza, il capro espiatorio, ecc., hanno origine da questa intuizione.

L’importanza di questa teoria non può sfuggire a menti allenate come le nostre: l’individuo, il soggetto si immagina determinante, ma in realtà i suoi comportamenti cambiano a seconda delle relazioni che di volta in volta intrattiene e dei modelli cui si ispira. A dominare la scena non è affatto il soggetto, ma la relazione. Cambia la relazione e irrimediabilmente cambiano le dinamiche affettivo-sentimentali e cambia il soggetto che le esperisce. Relations first.
C’è però anche un altro aspetto: partendo dalla sua teoria del desiderio mimetico, in seguito Girard ha esteso l’influenza della mimesis a ogni ambito della vita umana fino ad affermare che l’uomo è, in sostanza, un animale mimetico tout court: l’istinto imitativo è l’aspetto che più lo caratterizza e più ne determina il modo di orientarsi nel mondo. L’apprendimento avviene principalmente per imitazione e sempre per imitazione si verifica quella standardizzazione culturale che rende possibile lo sviluppo di gruppi umani relativamente omogenei. La mimesi è la colla che tiene insieme le società, qualunque cosa si voglia intendere con il concetto di società. Ma, soprattutto, è lo stesso processo di simbolizzazione, ovvero di costruzione delle mappe a partire dagli oggetti percepiti (il quale peraltro, parafrasando il titolo di un libro di Girard è all’origine di ciò che chiamiamo ‘cultura’ in quanto distinta dalla ‘natura’) a svolgersi principalmente per via mimetica. Le incisioni rupestri imitano le scene di caccia o di vita quotidiana vissute dall’homo sapiens, i canti imitano i suoni degli uccelli, le danze imitano le movenze degli animali, le carte geografiche imitano la conformazione del territorio, e via dicendo. Con il linguaggio umano le cose si fanno più complicate, ma è chiaro che nella sua formazione e sviluppo sia filo- che onto-genetico il mimetismo gioca un ruolo fondamentale.

Baudrillard e i tre ordini dei simulacri

Baudrillard raccoglie il testimone da Girard per offrire il suo personale contributo allo sviluppo del pensiero mimetico, conferendogli una qualità quasi oracolare, profetica. Già nel 1976 dedica molte pagine di L’échange simbolique et la mort [Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 1979] a illustrare i tre ordini di simulacri che si sono succeduti a partire dal Rinascimento, ovvero la contraffazione, la produzione e la simulazione. Cominciamo col dire che in origine il termine ‘simulacro’ – dal latino simul, ‘contemporaneamente, allo stesso tempo’, e simulare, ‘raffigurare in forma simile’indica qualcosa che imita un’altra cosa e può essere utilizzato per rappresentarla, come la statua di un divinità o una mappa che descrive un territorio. Siamo qui nello stesso ordine semantico dei segni e simboli, cui però si aggiunge una strisciante accezione di irrealtà, come nel termine ‘spettro’. La parola simulacro evoca già, larvatamente, un certo qual senso di impostura, e vedremo che tale accezione prenderà via via importanza nelle riflessioni di Baudrillard.

L'anatra automatica di De Vaucanson

L’anatra automatica di De Vaucanson

Nello Scambio simbolico e la morte, egli osserva che la dinamica di sviluppo dei simulacri si attiva veramente solo nel Rinascimento perché nelle società antiche e medievali divise in caste e ranghi impermeabili, il sistema dei segni è fisso, obbligato e addirittura crudele. Non si salta da una casta all’altra né da un significato all’altro, e tutta la rigidità dell’organizzazione sociale finisce per riverberarsi in una corrispondente  anelasticità semantica.
Le cose cambiano con il Rinascimento, epoca durante la quale, concomitantemente con la liberazione dalla precedente ‘endogamia dei segni’ (altra espressione memorabile di Baudrillard), nascono anche l’imitazione della natura in tutti i suoi aspetti, e con essa la contraffazione e il falso. Il luogo in cui primariamente si invera tutto ciò è il teatro, forma d’arte rinascimentale per eccellenza e regno della contraffazione eletta a sistema, di cui i grandi macchinari teatrali barocchi sono la manifestazione più eclatante. Un mondo tutt’altro che stucchevole ma fatto di stucco, il materiale simulativo per eccellenza, che di volta in volta imita le volute architettoniche, le forme vegetali, il drappeggio delle vesti o i volteggi della calligrafia. Il periodo dal Rinascimento alla rivoluzione industriale è anche l’epoca degli orologi e degli automi, dai semplici jaquemarts che suonano le ore negli orologi pubblici agli straordinari fantocci meccanici di De Vaucanson, tra i quali destavano particolare meraviglia il piccolo flautista, che emetteva davvero dei suoni, e l’anatra meccanica che poteva sbattere le ali, bere, mangiare e addirittura defecare. Per quanto sorprendenti, questi simulacri rientrano sempre e comunque nell’ambito dell’imitazione della natura intesa nel suo senso più ampio che comprende, naturalmente, la natura umana che fa da modello agli automi.

Tutto cambia radicalmente con la rivoluzione industriale, allorché l’imitazione della natura viene soppiantata dalla simulazione della capacità produttiva. Mentre con gli automi di De Vaucanson siamo ancora nel regno dell’arte teatrale, con i robot dell’età industriale entriamo nell’alveo dell’ingegneria e delle macchine, che aspirano a vicariare le funzioni produttive dei lavoratori. Non a caso il termine ‘robot’ viene dal ceco robotiti che significa ‘eseguire lavori pesanti’. Dall’imitazione della natura umana si passa a quella della funzione operativa umana, del suo lavoro. Con il robot perde anche importanza la somiglianza estetica: che importa se la macchina è radicalmente diversa e meno aggraziata dell’uomo? L’importante è che ne simuli l’efficacia produttiva. Mentre il falso artistico post-rinascimentale si sforzava di assomigliare a un unicum dotato di prerogative straordinarie (l’opera d’arte), nell’età industriale non vi è più un solo falso ma ve ne sono infiniti grazie al nuovo trucco capitalistico della produzione in serie.
L’ultima trasformazione è quella occorsa nell’età post-industriale, nella quale anziché simulare la natura o il lavoro umano, si ambisce a simulare il pensiero umano. È la società dell’informazione e dell’informatica, il cui simulacro è rappresentato dal codice e dal software i quali, così come il codice genetico testé scoperto e mappato, rappresentano l’architettura ultima della realtà. Ecco come si esprime in proposito lo stesso Baudrillard.

I grandi simulacri costruiti dall’uomo passano da un universo di leggi naturali a un universo di forze e di tensioni di forze, e oggi a un universo di strutture e di opposizioni binarie. Dopo la metafisica dell’essere e delle apparenze, dopo quella dell’energia e della determinazione, ecco quella dell’indeterminismo e del codice. Controllo cibernetico, generazione mediante i modelli, modulazione differenziale, retroazione, domanda/risposta, ecc.: questa è la nuova configurazione operativa (i simulacri industriali non essendo altro che operatori). La digitali è il suo principio metafisico (il Dio di Leibniz) e il DNA il suo profeta. [Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la Morte, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 69]

I sitemi digitali – dai computer alle reti neurali ai robot e ancora – imitano il funzionamento del sistema nervoso centrale umano e i suoi output in forma di inferenze logiche, funzioni operative e comportamenti fisici. Cambiano gli hardware, i software e gli attuatori in questione, ma l’intento ha sempre e comunque una natura mimetica.

La precessione dei simulacri

Copertina del libro di Jean Baudrillard Simulacres et Simulation

Simulacres et Simulation

Ma il vero colpo da maestro Baudrillard l’ha sferrato con quello che secondo me è il suo capolavoro, ovvero Simulacres et Simulation. pubblicato dall’editore Galilée nel 1981 (in italiano ne sono state pubblicate alcune parti raccolte nel libretto Simulacri e Impostura, PGreco editore, Milano, 2022). Qui si riallaccia al discorso degli ordini dei simulacri per suggerire che alla fine questo percorso storico ci ha condotto a fare esperienza di un fenomeno molto estremo che definisce ‘precessione dei simulacri’. Il significato dell’espressione è chiaro: mentre la pro-cessione segue qualcosa, la pre-cessione la anticipa. Secondo Baudrillard, i simulacri pre-cedono qualcosa, ma che cosa? La risposta è semplice: precedono la realtà. Il regno della simulazione simbolica è divenuto così ipertrofico e sovrabbondante da finire per soffocare la realtà sottostante che dovrebbe esserne il modello. Secondo lui, il significante ha spodestato il significato. Semplicemente, non c’è più alcun significato.
Per spiegare questo aspetto Baudrillard ricorre al celebre paradosso della mappa dell’impero cinese proposta da Jorge Luis Borges in Storia Universale dell’Infamia. Borges utilizza qui il vecchio ma sempre valido espediente di riportare il testo di un antico manoscritto ritrovato chissà come e chissà dove:

“… In quell’Impero, l’Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell’Impero che aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo Studio della cartografia, pensarono che questa Mappa enorme era inutile e non senza Empietà la abbandonarono all’Inclemenze del Sole e degl’Inverni. Nei deserti dell’Ovest rimangono lacerate Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non c’è altra reliquia delle Discipline Geografiche. (Suárez Miranda, Viajes de varones prudentes, libro IV, cap. XIV, Lérida, 1658)”. 

[Jorge Luis Borges, L’artefice, Adelphi, Milano, 1999
Baudrillard accoglie la parte iniziale del racconto, quello della mappa 1:1 dell’impero che finisce per sovrapporsi perfettamente al territorio sottostante, solo che ne ribalta la conclusione: invece di essere la mappa a finire abbandonata e in brandelli, secondo lui è la realtà sottostante ad essere soffocata dalla mappa e andare letteralmente in frantumi.
Già il conte Korzybski, fondatore della Semantica Generale, ammoniva che ‘la mappa non è il territorio’ e non va assolutamente confusa con esso, pena la perdita della salute mentale. Del resto che cos’è un folle, uno psicotico se non colui che ha perso contatto con la realtà. Anche il neurolinguista Terrence Deacon ripete a ogni piè sospinto che nel corso dell’evoluzione gli uomini, caratterizzati dalla capacità di maneggiare i simboli, hanno costruito una loro ‘nicchia simbolica’ e ci si sono chiusi dentro, separandosi dagli altri animali.
Baudrillard compie un passo ulteriore, giacché secondo lui nella società post-moderna non solo gli individui si sono a tal punto assuefatti all’uso delle mappe da aver perso il contatto diretto con la realtà, ma anzi è quest’ultima che ora finisce per imitare le mappe simboliche. In questo senso è lecito parlare di pre-cessione dei simulacri, in quanto questi ultimi hanno smesso di simulare la realtà e invece la determinano.
I modelli narrativi proposti dai media finiscono per inverarsi nei comportamenti delle persone e negli eventi sociali; la verità dei film è più vera e ‘significativa della vita quotidiana. Il denaro, invece di simboleggiare la disponibilità di energia e di lavoro, ha assunto un carattere autoreferenziale e si è trasformato da mezzo a fine che richiede esso stesso lavoro ed energia per essere prodotto. Gli oggetti fabbricati industrialmente tendono a perdere ogni traccia del processo produttivo che li ha generati ed anzi sono essi stessi, nelle loro metamorfosi di utilizzo, a generare cambiamenti nei processi di produzione. Persino gli alimenti si sono trasformati in mappe simboliche avulse dal mondo delle piante e degli animali da cui derivano: quanti consumatori sarebbero oggi in grado di riconoscere una pianta di caffè? Le città contemporanee sono sempre più involucrate e avulse dal mondo naturale da cui originano, mentre i frammenti di natura che sopravvivono al loro interno – parchi, giardini, zoo – si sono trasformati in mappe simboliche della realtà naturale ‘là fuori’, che però più nessuno conosce veramente.
Baudrillard si spinge ad affermare che “il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità, perché non c’è più alcuna verità nascosta o da nascondere. Il simulacro è vero.” Al vecchio e depauperato concetto di ‘realtà’, egli oppone quello di ‘iperrealtà’ in cui tutti siamo ormai immersi e che ha preso il sopravvento assoluto. L’iperrrealtà ha assunto grande valore sociale, mentre le vestigia di quella che chiamavamo ‘realtà’ si appalesano soltanto, di quando in quando, negli esperimenti dei laboratori scientifici o, come diceva Paul Virilio, quando si verifica una catastrofe.

I sistemi digitali auto-organizzativi

Mark-1 Perceptron

Mark-1 Perceptron

Da qualche tempo a questa parte, soprattutto in seguito all’avvento della cibernetica, i sistemi digitali sono divenuti auto-organizzativi (self-organising). Che cosa significa esattamente? Detto con parole semplici, significa che sono in grado di auto-correggersi e quindi di apprendere dall’esperienza. In essenza, apprendere consiste nel saper modificare in un secondo momento la risposta che si dà a un determinato stimolo dopo aver analizzato gli esiti della risposta fornita in un primo momento. Se sto facendo un calcolo e i conti non tornano, devo tornare sui miei passi, capire dove ho sbagliato e modificare i valori che avevo inserito all’inizio. È il fondamento di ciò che i cibernetici chiamano ‘retroazione negativa’ o ‘discesa del gradiente’.
Questo è esattamente il piccolo grande trucco attraverso il quale tutti i sistemi viventi migliorano il proprio adattamento all’ambiente assicurandosi maggiori possibilità di sopravvivenza e suoperiori livelli di benessere. La scienza dell’informazione ha imitato questi comportamenti adattativi ed è riuscita a implementarli nei sistemi digitali autorganizzativi come il machine learning, gli LLM, i robot altri.
Quando Warren McCulloch e Warren Pitts scrissero lo storico paper che diede avvio alla grande avventura dell’apprendimento automatico [A Logical Calculus of the Ideas Immanent in Nervous Activity, Bullettin of Mathematical Biophysics 5, 1943], dichiararono apertamente che stavano lavorando per analogia con le reti neurali del sistema nervoso centrale umano. In seguito i sistemi di deep learning si sono molto allontanati da questa analogia, ma sta di fatto che l’impulso iniziale era la simulazione delle reti neurali organiche. Nonostante si trattasse di una vecchia idea, risalente da un lato all’inventore del telegrafo Samuel Morse e dall’altro al fisiologo e fisico tedesco Hermann von Helmholtz, di fatto McCulloch e Pitts la rilanciarono nel momento in cui i tempi erano maturi per il suo accoglimento da parte della comunità sceintifica. McCulloch e gli altri pionieri della cibernetica come Norbert Wiener, Arturo Rosenblueth, Julian Bigelow e Gregory Bateson, si riunivano periodicamente nelle conferenze della Macy Foundation per studiare le caratteristiche distintive dei sistemi auto-correttivi in ogni campo del sapere.
Comune a tutti loro era la consapevolezza che il modello di base del sistema a feedback è il sistema nervoso centrale umano, e va detto che anche il geniale creatore di uno dei primi modelli di calcolatore elettronico (Edvac) John Von Neumann insisteva molto su questo punto.
Sebbene non cambi di molto l’economia del nostro discorso, a tal proposito val la pena di citare l’opinione di Hubert e Stuart Dreyfus [Making a Mind versus Modeling the Brain: Artificial Intelligence Back at a Branchpoint, Daedalus 117, 1988], secondo i quali i cibernetici non concepivano tanto le macchine come organismi, ma al contrario gli organismi come macchine. Autentici eredi di La Mettrie, erano quindi profondamente meccanicisti, ma è un dato che non sposta il nostro assunto generale: a fondamento dei sistemi digitali autorganizzativi che oggi tanto ammiriamo, c’è un forte impulso simulativo nei confronti dei sistemi biologici.

 Conflitti mimetici, svuotamento del reale e poi?

È allora giunto il momento di chiederci se questo slancio mimetico abbia prodotto le conseguenze vaticinate da Girard e Baudrillard, ma mi sembra di poter rispondere in modo affermativo. Innanzitutto, Girard ha chiarito che l’imitazione dà luogo al conflitto mimetico e su questo punto mi sembra che anche nel caso dei sistemi digitali autorganizzativi egli abbia (ante-litteram) colto perfettamente nel segno. Di fatto questi sistemi rimasticano continuamente gli stessi contenuti, proponendoli sotto spoglie continuamente diverse, ma noi sappiamo che quanto più convergiamo tutti verso gli stessi contenuti tanto più si scatena un violento conflitto mimetico per il controllo dei medesimi. Ed è esattamente ciò che si sta verificando oggi con le dispute sul diritto d’autore e sul controllo dei dati personali tanto utili al marketing delle grandi corporazioni. Queste ultime, inoltre, hanno ingaggiato una lotta senza quartiere per acquisire una posizione privilegiata nel mercato dell’intelligenza artificiale. Anche perché, come ha messo bene in luce Pasquinelli nel suo bel saggio già citato (The Eye of the Master), alla fine della fiera l’ascesa del machine learning e l’intelligenza artificiale obbedisce al ben noto intento neo-capitalistico di controllo dei sistemi di produzione a livello sia fisico (industria) che concettuale (scienza e conoscenza in genere). Il rischio di un aumento della conflittualità sociale determinata dallo sviluppo dei sistemi digitali auto-organizzativi è quindi molto probabile, e dovremmo tenerlo ben presente nelle nostre valutazioni di policy-making.
Inoltre – e con ciò passiamo al vaticinio di Baudrillard – che le sofisticate mappe simboliche contemporanee stiano rapidamente svuotando di senso il concetto di realtà mi pare innegabile: si pensi alle ricorrenti allucinazioni dei Large Language Models che sovrappongono senza alcun preavviso il verosimile al vero, oppure agli alias digitali che si sostituiscono alle guide turistiche o addirittura alle popstar per dare a milioni di fan adoranti il brivido di un apparente rapporto in prima persona, o ancora ai sistemi di guida autonoma che permettono al guidatore di perdersi nei suoi pensieri dimenticando le difficoltà del traffico urbano o autostradale.
La tendenza è evidente e innegabile: ci stiamo progressivamente richiudendo nella nostra nicchia evolutiva simbolica e c’è il rischio che alla fine qualcuno butti davvero via la chiave. E siamo ben consapevoli che la perdita del contatto con la realtà coincide con la perdità della salute mentale.
E allora quale sarà il prossimo passo? La definitiva rinuncia al rapporto diretto con il reale o, al contrario, un brusco ritorno ad esso? Non tarderemo molto a scoprirlo, noi o i nostri discendenti.