LA NOSTRA IR-RESPONSABILITÀ PER LA NATURA E IL PROBLEMA DEL CONFORT
Massimo Morelli
Nel suo saggio ormai classico John Passmore (John Passmore, Man’s Responsibility for Nature, Gerald Duckworth & Co., Londra, 1974. Trad. it. La nostra Responsabilità per la natura, Feltrinelli, Milano, 1986) parlava della ‘nostra responsabilità della natura’, della quale a quanto sembra abbiamo qualche difficoltà a farci carico. Qui cerco di offrire un piccolo contributo alla questione più importante che oggi ci troviamo ad affrontare, ovvero il problema ecologico. Riusciremo a evitare di rendere inabitabile l’unico ambiente in cui di fatto possiamo abitare, denominato non a caso bio-sfera? Sapremo rinunciare – come dice il maestro del pensiero eco-sistemico Gregory Bateson – alla saggezza dei tempi brevi per votarci con serietà a quella dei tempi lunghi, indispensabile per salvare il pianeta con tutto il suo prezioso carico di esseri viventi? Riusciremo a costruire in tempo la proverbiale Arca e metterci tutti in salvo al termine di questo impressionante diluvio al rallentatore che alza il livello dei mari a poco poco, quasi impercettibilmente, come il calore dell’acqua in cui è precipitata la sciagurata rana? Ciò ch’era inconciliabile si riconcilierà, vaticina Czeslaw Milosz nella sua Fodera del mondo, ma come vedremo non è facile unirsi a lui in questo atto di fiducia radicale, non foss’altro perché sulla questione ecologica la specie umana ha prodotto un’impressionante quantità di congetture e comportamenti contraddittori.
La prima cosa da fare è separare il piano speculativo, delle teorizzazioni sul tema ecologico, dai comportamenti concreti posti in atto negli ultimi decenni tanto dagli individui quanto dalle organizzazioni umane. Pur pensando, come gli antropologi, che alla fine contano i comportamenti, e che le verbalizzazioni contano principalmente in quanto, per l’appunto, comportamenti verbali (Wittgenstein diceva che le parole sono azioni), ritengo che in questo campo sia necessario distinguere i due piani, che manifestano spesso forti distonie. Seguiamo allora risolutamente da Vinci, secondo il quale “sempre la bona pratica deve fondarsi sulla bona teorica”. Vediamola, questa bona teorica.

Particolare del dipinto di Hieronymus Bosch, Il Giardino delle Delizie
Paradossi del pensiero ecologico in Occidente
Cominciamo col dire, come aveva già chiarito Passmore diversi anni orsono, che sul piano speculativo le cose non sono così semplici come qualcuno vorrebbe che fossero: non è vero, innanzitutto, che l’Occidente abbia optato sin dalle origini per un atteggiamento di bieco sfruttamento del mondo naturale. Non è così, le posizioni sono molto più articolate, sfumate e spesso contraddittorie all’interno della stessa cultura, sia essa greca, ebraica, cristiana o altro.
C’è un solo contesto in cui regna una relativa concordia tra le varie tradizioni dell’Occidente e non solo, ed è quello precedente alla Caduta. Sul fatto che sia esistita un’epoca felice precedente alla caduta in disgrazia dell’umanità, e che in quest’epoca regnasse grande armonia tra l’uomo, gli altri animali e il resto della creazione sono tutti d’accordo.
Adamo ed Eva vivevano in armonia con tutti gli esseri viventi, erano vegetariani e la loro dieta si limitava alle erbe verdi e ai frutti degli alberi. I sostenitori della sensibilità e del pensiero delle piante, come Stefano Mancuso, potrebbero avere qualcosa da ridire, ma non serve sottilizzare perché il messaggio di questa antica narrazione è molto chiaro: non c’era bisogno di sfruttare nulla semplicemente perché in quello stato irenico di nulla v’era realmente bisogno. E non si tratta di un mito esclusivamente ebraico: anche i Greci si uniscono al coro riferendosi a un’Età dell’Oro (Esiodo) o dell’Amore (Empedocle) in cui gli uomini non conoscono il dolore e la necessità di guadagnarsi il pane. Secondo Esiodo in quell’epoca straordinaria, ai tempi di Crono, sul Monte Olimpo, gli uomini vivevano
“come dèi, senza affanni nel cuore, lungi ed al riparo da pene e miseria, né triste vecchiaia arrivava, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, nei conviti gioivano, lontano da tutti i malanni; morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni c’era per loro: il suo frutto dava la fertile terra senza lavoro, ricco e abbondante; e loro, contenti e in pace, si spartivano i frutti in mezzo a beni infiniti, ricchi d’armenti, cari agli dèi beati” (Esiodo, Le Opere e i Giorni, Garzanti, Milano, 1985, trad. it. G. Arrighetti, vv. 112-120)
Questo mito non è appannaggio esclusivo dell’Occidente, lo si ritrova in molte altre culture in giro per il mondo. I taoisti, ad esempio, parlavano dell’Età della Perfetta Virtù, contraddistinta da una convivenza armoniosa con tutti gli altri esseri animati e inanimati. Siccome non c’è traccia di un fondamento storico, o meglio preistorico, di un’epoca siffatta, dobbiamo concluderne che si tratti di un mito archetipico sorretto da un fondamento psicologico comune: gli uomini sentono di essere usciti da uno stato originario di perfetta fusione con il mondo naturale, e sebbene si rendano conto che questo allontanamento ha reso possibile lo svilupparsi della coscienza a livello individuale e della civiltà a livello collettivo, ciononostante provano nostalgia per quella condizione e vorrebbero tornarvi. Resta da capire se il ritorno possa avvenire portando con sé le conquiste della civiltà o se invece si renda necessario il sacrificio delle medesime e una regressione a livello pre-storico. Tutto ciò profuma sia di pensiero junghiano (non a caso Erich Neumann ha dedicato un ponderoso volume a questo tema: Erich Neumann, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni Femminili dell’Inconscio, Astrolabio, Roma, 1981) sia di dialettica hegeliana mal digerita. Personalmente mi basta guardare un documentario sulla vita degli alligatori o dei casuari per dubitare fortemente sulla desiderabilità di un siffatto stato di natura. Ma è un altro discorso, mentre quel che ci interessa è che nello stato antecedente alla Caduta, ovvero all’insorgere della coscienza e della capacità riflessiva umana, il problema ecologico semplicemente non si pone. Se non c’è qualcosa che ti distingue, ti separa dal tuo ambiente, una logica di sfruttamento semplicemente non può sussistere.
Diverso è il discorso per lo stato dell’umanità successivo alla caduta. Qui la faccenda si complica: prendiamo l’ebraismo delle origini come si esprime nella scrittura vetero-testamentaria. Siccome il Dio degli ebrei mostra spesso e volentieri un carattere risoluto, da padre di famiglia assolutista, e il famoso Genesi I, 26 afferma che “Dio creò l’uomo perché domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le creature selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”, molti si sono sentiti autorizzati a concluderne che l’Antico Testamento promuova una mentalità dispotica nei confronti della natura. Queste istruzioni furono impartite dal Dio ebraico prima della Caduta, ma come abbiamo detto in quel periodo il problema non si poneva, sicché esse tornarono davvero utili solo dopo il passo falso (o propizio?) del peccato originale.
Ma come detto le cose non sono così semplici, perché in altri passaggi all’immagine dell’uomo despota si sovrappone quella del pastore benevolo che si prende cura degli animali affidatigli. In Proverbi 12, 10 si legge che “Il giusto si prende cura del suo bestiame”, mentre Ezechiele 34, 1-2 recita: “Così dice il Signore Dio: guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge?”. In Geremia 23, 4 Dio sembra addirittura prendersi cura direttamente delle pecore, animali a lui cari: “Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una.” Certo, qualcuno potrebbe notare che il ruolo del pastore è fortemente ambiguo perché è vero che egli si prende cura degli animali da pascolo, ma è anche vero che lo fa con lo scopo ultimo di procurarsi del sostentamento. A questa osservazione rispose in tutt’altro contesto Socrate nella Repubblica, notando che l’arte della pastorizia, come quella del governo (che è poi il vero oggetto dell’argomentazione socratica), consiste nel prendersi cura delle greggi e non nel ricavarne del profitto, che è invece compito dei commercianti.

William Blake, The Ancient of Days
Al di là di questo dibattito su quale sia l’autentica missione dei pastori, resta il fatto che nell’Antico Testamento troviamo versetti di intonazione radicalmente diversa. Il punto è, come nota giustamente Passmore, che l’Antico Testamento è teocentrico e non antropocentrico, sicché quello che importa davvero è il rapporto tra Dio e la sua creazione, non il rapporto tra l’uomo e le altre creature. Il mondo creato da Dio ha poi delle sue gerarchie interne, in virtù delle quali l’uomo occupa un posto superiore rispetto alle bestie, ma queste contano poco di fronte all’unica gerarchia davvero importante che regola i rapporti tra Dio e la sua magnificente creazione. Per questo motivo è difficile affermare che l’ebraismo delle origini promuova tout court un rapporto di stampo tirannico tra l’uomo e il mondo naturale. È invece vero che per gli ebrei, i quali ripongono ogni valore nell’essenza spirituale di un Dio trascendente, la natura non è sacra, bensì una forma di esistenza di grado inferiore che può essere dominata o amministrata dall’uomo a seconda dei toni coi quali di volta in volta si sviluppa la narrazione biblica.
Siamo abituati a pensare al Dio dell’Antico Testamento come a un padre esigente e a volte persino crudele, mentre il Dio cristiano, che ha avuto la compiacenza di farsi uomo per salvare l’umanità intrisa di peccato, è visto come un padre anch’egli potenzialmente irascibile, ma in buona sostanza amorevole e accogliente. Scherzandoci su potremmo dire che il Dio veterotestamentario è tendenzialmente conservatore e quello cristiano progressista… Naturalmente tutto ciò ha del fondamento, ma non regge assolutamente quando si tratta del rapporto tra uomo e natura. Mentre come s’è detto l’Antico Testamento è teocentrico, e l’uomo è relegato al ruolo di servitore del Signore onnipotente, il Nuovo Testamento con la sua buona novella del Dio incarnato risulta invece del tutto antropocentrico; l’uomo occupa il centro della scena e questo cambia completamente il suo rapporto con il resto della creazione. Per gli ebrei l’uomo è sostanzialmente un amministratore del creato per conto di Dio, vero e incontrastato titolare del business cosmologico; per i cristiani ogni cosa è stata invece creata da Dio per il profitto di quell’uomo in vista della cui salvezza ha addirittura deciso di incarnarsi. La natura non è sacra né per gli ebrei né per i cristiani, ma per questi ultimi essa esiste unicamente in funzione delle esigenze umane. È sicuramente inesatto affermare che i cristiani sono meno ‘ecologici’ degli antichi ebrei, ma insomma a livello di boutade ci può anche stare. Passmore su questo punto sfiora l’ilarità citando il passo in cui l’evangelista Luca discetta di uomini e passeri:
Così Luca fa parlare Gesù: “Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nessuno di essi è dimenticato davanti a Dio”. L’attenzione provvidenziale di Dio per i passeri è introdotta solo per mettere in evidenza la differenza, almeno nella quantità, della sua cura per l’uomo. “Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati”, e non, si presume, le piume del passero. “Non temete, voi valete più di molti passeri.” Paolo parla ancora più chiaro. Citando dal Deuteronomio “Non metterai la museruola al bue che trebbia”, si chiede: “Forse Dio si dà pensiero dei Buoi?” E la risposta per lui è ovvia: a Dio non importa dei buoi ma solo dell’uomo. “Certamente fu scritto per noi. Poiché colui che ara deve arare nella speranza di avere la sua parte, come il trebbiatore trebbia nella stessa speranza”. (John Passmore, op. cit., p. 31)
I cristiani insomma predicano la centralità dell’amore, ma non nei confronti degli animali e del mondo naturale in genere. Il campione di questo atteggiamento è stato Calvino, secondo il quale Dio volle mostrare la cura paterna che ha per l’uomo preparando quanto prevedeva fosse utile e vantaggioso per lui prima di crearlo. L’uomo è venuto per ultimo, al termine dei fatidici sei giorni, perché prima il Signore ha voluto, per così dire, addobbargli il banchetto.
La civiltà greco-romana, ammesso che sia lecito accomunare due civiltà successive ma tanto diverse, ha vissuto uno sviluppo simile. In origine, la religione greca riteneva che ogni pretesa dell’uomo a ergersi dominatore del mondo naturale fosse un atto di tracotanza (ὕβρις) inviso alla turbolenta comunità degli Dei, unici a potersi arrogare un tale diritto. La natura inoltre, permeata dalla presenza degli esseri divini, conservava un suo carattere sacrale testimoniato anche dal continuo andirivieni metamorfico tra dei, uomini, rocce, alberi e animali. Seppur forse non sacra in se stessa – ma qui il discrimine è sottile – era certamente sacralizzata dall’attiva partecipazione del pantheon olimpico. Mentre il Dio degli ebrei è sempre trascendente, non condivide la sua essenza spirituale con la creazione, il politeismo greco delle origini manifesta un certo grado di immanenza, di coinvolgimento nel mondo umano e naturale. La musica cambia, però, con la nascita della filosofia greca o illuminismo greco, come alcuni preferiscono chiamarlo. Uno dei mattatori di quell’epoca straordinaria, il sommo Aristotele, sul tema del rapporto con piante e animali non fa prigionieri: “… è chiaro che la natura pensa anche agli adulti e che le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo, quelli domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici, se non tutti, almeno la maggior parte, perché se ne nutra e se ne serva per gli altri bisogni, ne tragga vesti e altri arnesi. Se dunque la natura niente fa né imperfetto né invano, di necessità è per l’uomo che la natura li ha fatti, tutti quanti.” (Aristotele, Politica, libro I, cap. 8, 1256 b) Evidentemente il disincantamento del mondo di cui parla Max Weber, che proprio allora sembra aver preso le mosse, tende a favorire il pensiero calcolante che valuta tutto in funzione della sua utilità.
In verità non tutta l’intellighenzia greca era allineata su questo punto di vista: tanto per cominciare l’altro pezzo da novanta del pensiero greco, Platone, colloca il suo maestro Socrate su posizioni ben diverse. Nella Repubblica, laddove ci si interroga su quali siano le migliori forme di governance delle comunità umane, Socrate si oppone al retore Trasimaco secondo il quale chi è al governo agisce guidato principalmente dai suoi personali interessi (questo è sicuramente vero nell’Italia contemporanea, ma a quanto pare segnali in questo senso si manifestavano già duemilacinquecento anni fa). Socrate non ci sta e ribatte che a ben guardare obiettivo del governante è solo e unicamente il bene dei governati, mentre ambizioni di tipo diverso derivano da logiche esogene, estranee alle necessità del buon governo. Sulla stessa linea i successori neoplatonici – Giamblico in particolare – erano convinti che l’anima immortale è inviata da Dio nel mondo fisico soggetto a corruttela per amministrare convenientemente le cose terrene. Diversa ma altrettanto contraria alla visione dell’uomo despota fu la posizione degli epicurei – Lucrezio in primis – i quali pensavano che il progetto del mondo fosse così assurdo e manchevole da ritenere del tutto irragionevole una sua creazisone ad uso e consumo dell’uomo. Oggi si tende a considerare l’epicureismo una corrente filosofica minore, popolata di crapuloni e sottanieri impenitenti, ma le cose non stavano così; al pari degli stoici, la corrente ad essi avversa, gli epicurei avevano sviluppato molte riflessioni niente affatto peregrine. Nel De Rerum Natura Lucrezio si spinge addirittura a teorizzare una forma larvata di selezione naturale come fondamento dell’evoluzione sul nostro pianeta: “Certamente molte stirpi di viventi hanno dovuto perire, e non hanno potuto propagarsi generando prole. Infatti, qualsiasi specie tu veda che si nutre nelle aure vitali, si è mantenuta attraverso le generazioni o grazie all’astuzia o alla forza o, infine, alla velocità.” C’è anche chiaramente enunciato il principio del survival of the fittest, laddove egli scrive: “Ma le specie a cui la natura non ha dato nessuna di queste qualità, e non potevano né sopravvivere per propria virtù, né essere di qualche utilità agli uomini […] hanno dovuto soggiacere come vittima o preda di altre specie, costrette dai loro inesorabili vincoli, finché la natura non ne ha condotto la stirpe ad estinzione” (Lucrezio, De Rerum Natura, Libro IV, vv 825 sgg).

Manoscritto del De Rerum Natura risalente al 1483
Da questa visione evoluzionistica discende il rifiuto epicureo di considerare la natura creata in funzione dell’uomo despota, anche se va detto che fu una posizione abbastanza infrequente e parecchio avversata dalle altre scuole, soprattutto dai loro implacabili arcinemici stoici. Questi ultimi concepivano Dio come λογος, come ragione divina immanente a tutto ciò che esiste, e quindi non facevano riferimento a una Rivelazione che, tra l’altro, definisse i principi della condotta etica. La morale consisteva nel ‘vivere secondo natura’, ovvero secondo il λογος divino che regge il cosmo, seguendo la ragione ed evitando di soggiacere all’influenza nefasta delle passioni. Tra questi moti passionali da rifuggire dovevano esserci anche la compassione e l’empatia, giacché per gli stoici gli animali coi quali condividiamo il pianeta esistono solo ed esclusivamente per essere utili all’uomo. Siccome tutto è retto dal λογος ed ha quindi una sua ragione d’esistere, nulla è superfluo, anche le pulci e i topi svolgono una precisa funzione. Sì, ma quale? Teniamoci forte perché Crisippo, nel suo libro della Fisica, sostiene che le pulci servono a svegliare i pigri e i topi a costringere gli uomini a tenere le case in ordine.… Qui parlare di antropocentrismo è riduttivo. Insomma nel mondo antico per cani, cavalli, gatti, topi e persino pulci era di gran lunga preferibile finire nella domus di un lascivo epicureo piuttosto che nella proprietà di un integerrimo gentiluomo stoico. Ma in fin dei conti tutto questo non fa che convincerci del fatto che, almeno a livello teorico, nel mondo antico la concezione del rapporto tra uomo e natura è tutt’altro che univoca.
Questa alternanza tra visioni dispotiche e solidaristiche del rapporto tra uomo e natura è proseguita attraverso i secoli, con un certo predominio della prima sulla seconda, senza tuttavia che si assurgesse mai a configurazioni monopolistiche. Riformulando l’antica posizione giudaico-cristiana in salsa scientista, il Lord Cancelliere Francis Bacon sosteneva che così come Dio aveva originariamente conferito all’uomo il potere di dare nome agli animali, allo stesso modo lo sviluppo delle scienze consentirà all’uomo di attribuire loro il vero nome scientifico, assicurando il pieno dominio su di essi e sul mondo naturale in genere. Un po’ strano questo miscuglio di fede scientista e pensiero magico (pretendere di controllare le cose nominandole è un vecchio stratagemma di maghi e fattucchieri di ogni latitudine), per un avversatore di tutti gli idola come Bacon, ma si sa, paradosso e contraddizione costituiscono l’essenza più profonda dell’animo umano.
Più o meno in quegli stessi anni sull’altra riva della Manica il filosofo più amato/odiato della storia della filosofia moderna, René Descartes, affermava senza false pudicizie che attraverso la scienza, e in particolare attraverso il suo tipico metodo di indagine basato sul dubbio sistematico, l’evidenza dei dati sensoriali e il ragionamento deduttivo di stampo matematico, gli uomini sarebbero divenuti gli assoluti signori e padroni della natura. Per certi versi ci avrebbe anche azzeccato, non fosse che ai giorni nostri la natura stia dando chiari segni di non volersi assoggettare senza discutere e creare problemi…

Henry More
Il pensiero scientifico occidentale affonderebbe quindi le sue radici su una visione dispotica del rapporto con la natura? Non del tutto, o perlomeno non in modo così netto e incontrovertibile. Un conterraneo quasi coevo di Bacon, il platonista Henry More, fu un aspro oppositore dell’antropocentrismo cartesiano sostenendo che Dio desidera la felicità di tutte le creature, non solo dell’uomo; gli animali non furono creati solo per essere utili a noi, ma per perseguire il loro stesso benessere e felicità. Ripeto che dalla visione dei documentari sulla vita degli animali non si capisce bene in che modo questi perseguano la loro felicità, ma è possibile che queste perplessità troppo umane discendano da un insanabile vizio prospettico: se identifichiamo la felicità con la sopravvivenza, allora il discorso si fa più comprensibile. Ad ogni modo è fuor di dubbio che il problema di fondo sia l’antropocentrismo.
Un portentoso salto in avanti fu compiuto nel Settecento dal grande genio tassonomizzatore svedese Carl Nilsson Linnaeus, per gli italiani Carlo Linneo, cui si deve la prima elaborazione del concetto di ecosistema interdipendente. Se è vero, osservò Linneo, quel che si dice di solito, ovvero “…che la terra esiste per produrre le piante, le piante per nutrire gli erbivori, gli erbivori per nutrire i carnivori e i carnivori per essere utili all’uomo” è anche vero che si può percorrere la stessa catena a ritroso affermando che “gli erbivori esistono solo per limitare la sovrabbondanza di erbe e il pericolo che esse soffochino ogni altra cosa, i carnivori per mettere un limite alla voracità degli erbivori; l’uomo infine, riducendo il numero dei carnivori, assicura fra il numero di questi e il numero degli erbivori il necessario equilibrio”. Et voilà, ecco descritta la natura relazionale e interdipendente degli ecosistemi su cui tanto insisterà Gregory Bateson. Naturalmente questa nuova concezione anticipatrice di Linneo non fu in grado di soppiantare il mainstream baconiano e cartesiano, ma possiamo dire che, come i suddetti erbivori, mise un piccolo argine alla proliferazione delle piante infestanti.

Bjørn Lomborg, l’ambientalista scettico
Tale alternanza di visioni teoretiche dispotiche (mainstream) e solidaristiche (minoritarie) è proseguita per tutta la storia dell’Occidente fino a quando il combinato disposto di sviluppo tecnologico, produzione industriale su larga scala e affermazione della società dei consumi non ha dato vita a un vero e proprio pensiero ecologico. Va comunque detto che ai maestri dell’ecologismo come Ernst Haeckel (cui si deve il termine ‘ecologia’), Herbert Marcuse, Aldo Leopold, Rachel Carson e a mio parere il più profondo e influente di tutti, Gregory Bateson, si sono via via opposti i cosiddetti skeptical environmentalist, secondo i quali il problema ecologico sarebbe dovuto a un semplice errore di prospettiva, giacché l’insorgere delle varie criticità legate all’inquinamento, al cambiamento climatico, all’estinzione delle specie e conseguente riduzione della biodiversità planetaria, ecc., sarebbe in realtà dovuto al normale evolversi dei cicli naturali (semplificando molto l’innalzamento delle temperature non sarebbe dovuto all’effetto serra, ma a un fenomeno ciclico destinato ad esaurirsi e lasciar posto a una tendenza opposta). Tanto per capirsi, il saggio The Skeptical Environmentalist pubblicato nel 2001 dallo statistico danese Bjorn Lømborg è stato un best seller mondiale (per gli anglofoni fu edito dalla Cambridge University Press) anche a dispetto di una condanna della DCSD (Danish Committee on Scientific Dishonesty) per palese disonestà scientifica imputabile alla mancanza di preparazione dell’autore in numerose discipline rilevanti per le sue tesi.
Piuttosto che soffermarmi sullo skeptical environmentalism, oggi superato da numerose evidenze scientifiche che imputano senza tema di smentita le varie problematiche ambientali allo sviluppo antropico, preferisco delineare almeno a grandi linee la punta della lancia dell’ecologismo contemporaneo, ovvero il pensiero eco-sistemico di Gregory Bateson.
Mente e natura: un’unità necessaria.
Non sono riuscito a esimermi dal valorizzare questo capitoletto facendo riferimento al titolo del capolavoro di Gregory Bateson: Mind and Nature. A Necessary Unity. Si può immaginare un titolo più bello e più importante di questo? L’unità tra mente e natura non è soltanto auspicabile, ipotizzabile, riscontrabile: è necessaria. Non è possibile pensare a questo rapporto diversamente che in termini di unità, e tra poco vedremo perché. Che lo spirito di Cartesio, ovunque si trovi, se ne faccia una ragione, res cogitans e res estensa costituiscono un insieme integrato e inscindibile, al di là del misero contributo offerto dalla ghiandola pineale.

Mind and Nature, A Necessary Unity
Anche se non sempre lo danno a vedere, i grandi pensatori procedono per interrogativi-chiave. Quello fondamentale in Mind and Nature è questo: quand’è che la natura diviene capace di dar luogo al processo mentale? O meglio, qual è il livello di complessità organizzativa necessario affinché un sistema naturale possa produrre attività mentale (consideriamo che anche noi uomini, la cui intelligenza non osiamo mettere in dubbio, siamo dei ‘sistemi naturali’)?
Si tratta di stabilire il punto esatto della scala di complessità naturale laddove al livello della pura fisicità si sovrappone quello della mente. Dire che mente e natura costituiscono un’unità necessaria non significa infatti che ogni complesso naturale sia per ciò stesso intelligente: esistono complessi naturali, come le pietraie, che non manifestano alcuno dei segni distintivi dell’intelligenza.
A un più alto grado di complessità strutturale, vi sono invece sistemi naturali capaci di dar luogo al processo mentale, e in questo caso al semplice mondo fisico si sovrappone quello della mente e dell’informazione. Ma – si chiede Bateson – qual è il vero spartiacque tra il mondo fisico e il mentale? Quand’è che finisce uno e comincia l’altro? È davvero una domanda-chiave. Qualche anno prima un altro pensatore immanentista, il gesuita Teilhard de Chardin, aveva cercato di conciliare l’evoluzionismo con una prospettiva religiosa sostenendo che tutto ciò che esiste, a qualsiasi livello di organizzazione esso sia, manifesta in qualche misura la presenza dello spirito e quindi dell’intelligenza.
In Mind and Nature sono elencati i sei criteri che definiscono la linea di confine tra mentale e non: evitando di ripeterli nuovamente, riassumo dicendo che la demarcazione si situa al livello dell’autocorrettività e quindi dell’apprendimento: se un sistema naturale possiede la capacità di autocorreggersi, allora esso è anche una ‘mente’, altrimenti no. Il mentale è fatto di sistemi (ovvero insiemi di relazioni funzionali dotate di regolarità) cibernetici, autocorrettivi, in grado di autoregolarsi per mantenere invariato un valore o un insieme di valori. Non voglio impegolarmi in una disamina dell’argomento, ma noto di passaggio che si parla di intelligenza artificiale (AI) solo e soltanto quando si è in presenza di machine learning, ovvero quando la macchina è in grado di autocorreggersi, di migliorare le proprie performance a processo in corso.
Questo modo di vedere le cose ha una conseguenza decisiva: se si afferma che i sistemi autocorrettivi sono in grado di produrre attività mentale e posseggono quindi una qualche forma di intelligenza, con ciò stesso si ammette anche che la coscienza non è una condizione necessaria del mentale e dell’intelligenza. Mente e coscienza sono cose diverse. Sia in natura, sia tra le macchine prodotte dall’uomo esistono sistemi autocorrettivi, e quindi ‘intelligenti’, che per quanto si sa sono del tutto incoscienti. L’ecosistema ‘bosco’, ad esempio, pur essendo privo di coscienza è tutt’altro che sprovvisto di facoltà mentali: come dice Bateson, un bosco sa come organizzarsi per permettere la coesistenza di specie animali diverse, sa come adoperarsi per ricostruire un habitat vivibile in seguito alle più gravi devastazioni, e entro certi limiti sa anche come rimediare ai danni dell’inquinamento ambientale (sigh). Secondo il modo di pensare batesoniano la mente non è una proprietà dei singoli individui, bensì della rete di relazioni che li collega. È mentale il sistema, non l’individuo. Ad esempio non è corretto dire che il delfino nella vasca ha una mente e che il suo istruttore, l’uomo che gli insegna gli esercizi, ne ha una anche lui; in realtà la mente è il sistema, la rete di relazioni che lega l’uno all’altro e ognuno di essi con gli elementi dell’ambiente circostante. Quando il delfino e l’istruttore lavorano insieme, la mente all’opera è il sistema cibernetico (autocorrettivo) ‘delfino-più-istruttore-più-ambiente circostante’. Per chi se lo stesse chiedendo, siamo ancora in una posizione dualistica. Abhinavagupta è lontano. Ma del resto cosa possiamo pretendere da un antropologo inglese cresciuto nelle migliori scuole del regno britannico e figlio di un biologo che fu tra i riscopritori del lavoro di Mendel?
Detto questo, resta da spiegare quale sia il ruolo della coscienza, che sembra distinguere l’essere umano da tutti gli altri esseri viventi. Bateson si limita ad affermare che la coscienza è uno speciale specchio riflettente che consente all’individuo umano di elaborare un’immagine consapevole di se stesso e del mondo in generale. Bisogna poi capire se le immagini prodotte dalla coscienza costituiscano un’adeguata rappresentazione della realtà oppure no: questo specchio cui teniamo tanto, è uno specchio fedele o deformante? Per Bateson non c’è alcun dubbio: è deformante perché elabora una rappresentazione inadeguata della realtà. Nella sua prospettiva, tutto il regno del vivente consiste in un’intricata rete di circuiti cibernetici, un fittissimo intreccio di sistemi conservativi; l’individuo umano è un complesso organizzato di relazioni e lo stesso vale per gli ecosistemi naturali, le organizzazioni sociali, animali e umane. Tutto il mondo della vita possiede una natura ‘cibernetica’, e se la coscienza ne fosse lo specchio fedele dovrebbe renderne conto. Ma di fatto questo non accade: la coscienza di per sé sola sembra incapace di cogliere la natura sistemica della realtà.
Il problema è che tra la realtà (ovvero la natura sistemica dell’io e del mondo) e la coscienza esiste un rapporto che Bateson definisce ‘semipermeabile’ (Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Mind, op. cit., p. 438): solo una limitata quantità di informazione su ciò che accade nel reale di fatto accede alla coscienza. Il raggio focale della consapevolezza può investire di luce solo pochi elementi alla volta, così che le immagini coscienti della realtà finiscono per essere sempre necessariamente delle estrapolazioni parziali e circoscritte. In altre parole, della vasta trama di interconnessioni che formano la mente totale, la coscienza seleziona solo alcuni elementi secondo i criteri che le sono propri, opera una ‘resezione’ dei circuiti mentali nella loro interezza, rappresentando solo alcuni archi, spezzoni di circuito.
Ma perché la coscienza opera tale resezione distorsiva? Secondo Bateson è un problema di natura economica: “Nessun organismo può permettersi di essere cosciente di faccende che può sbrigare a livelli inconsci” (Steps to an Ecology of Mind, p. 143. Tr. it. p. 177). Innanzitutto, un sistema totalmente cosciente è impossibile, e ciò in virtù di una semplice considerazione: ogni sistema che voglia allargare la portata della propria consapevolezza deve procedere alla descrizione di quelle parti del processo complessivo che sono rimaste al di fuori del raggio d’azione della coscienza, ma per far ciò deve per forza dotarsi di nuovi circuiti utili a effettuare questa descrizione. A questo punto però, nel suo tendere verso la coscienza totale, il sistema è costretto a eseguire anche la descrizione di questi nuovi circuiti, descrizione che a sua volta richiede un’ulteriore aggiunta di strutture circuitali. Ma anche queste ultime devono essere descritte, e la loro descrizione richiede un ennesimo supplemento di circuiti. E via di seguito, è la vecchia storia del regressum ad infinitum. Il motivo per cui la coscienza riproduce sempre una parte piuttosto ristretta della mente totale risiede nel fatto che, paradossalmente, ogni aumento di consapevolezza produce una diminuzione della percentuale complessiva di eventi coscienti all’interno del sistema. La coscienza deve essere limitata, è la stessa economia del sistema a richiederlo.
Detto questo, il problema diventa quello di capire secondo quali criteri la coscienza opera questa resezione dei circuiti mentali complessivi. La coscienza muove il fuoco della sua attenzione secondo qualche logica, questo è evidente, ma quale? Siamo piuttosto all’oscuro sui principi di funzionamento della coscienza: filosofi, psicologi e neuroscienziati si inventano qualche nuova teoria ogni settimana, ma tra le poche cose che ci sono note è che la coscienza sembra operare per finalità. Di tutte le informazioni disponibili, la coscienza sceglie quelle che più delle altre sono necessarie al raggiungimento dei fini dell’individuo. Ciò che non ha attinenza o ha poca attinenza con gli scopi e i desideri del soggetto resta confinato nell’ambito dell’inconsapevole. La coscienza è limitata principalmente perché viene utilizzata per le questioni più urgenti, per il conseguimento dei fini più immediati.
La coscienza […] è organizzata in termini di finalità. Essa ci fornisce una scorciatoia che ci permette di giungere presto dove vogliamo; non di agire con la massima saggezza per vivere, ma di seguire il più breve cammino logico o causale per ottenere ciò che si desidera appresso, e può essere il pranzo, o una sonata di Beethoven, o un rapporto sessuale. Può, soprattutto, essere il denaro e il potere (Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Mind, pp. 439-440. Tr. it., p. 448).
La coscienza è quindi finalizzata, e proprio in questo risiede tanto il suo pregio quanto il suo limite. Da un lato ci permette di concentrare le risorse mentali sui compiti di maggior rilievo per la sopravvivenza o il conseguimento di un qualsiasi risultato, dall’altro ci rende più difficile cogliere la natura sistemica della realtà, o della mente totale, che dir si voglia.
Alla coscienza sfugge il quadro d’insieme e questo difetto di fondo appare chiaro se volgiamo lo sguardo ai mezzi di informazione contemporanei che rappresentano la nostra coscienza a livello di comunità. Oggi questi media si occupano dei barconi carichi di poveri migranti che affondano nel mar Mediterraneo, domani della nuova legge di bilancio e dopodomani della guerra tra Russia e Ucraina, saltabeccando di qua e di là alla rincorsa dell’evento del giorno e perdendosi quasi sempre il livello sistemico che lega tutti questi fenomeni gli uni agli altri. Quando poi qualche rarissimo giornalista illuminato riesce a ricostruire un quadro sistemico con tutte le sue sfaccettature e punti di equilibrio o squilibrio, molti di noi sono disposti a gridare al miracolo. L’italiana Gabanelli e i giornalisti d’inchiesta del Guardian sono esempi di questo tipo, ma lo standard del giornalismo mondiale è e resta comunque concentrato su questioni evenemenziali di breve termine.
Finché tale resezione dei circuiti mentali resta un fatto sporadico e l’individuo rimane comunque in contatto con gli elementi inconsci che formano la struttura dell’io e del mondo, niente di male. Quando però il finalismo della coscienza si fa troppo invadente, allora cominciano a insorgere numerose le patologie, che possono essere fisiche o psichiche, ma assumono sempre un’unica configurazione-base: l’allontanamento dell’uomo dalla matrice naturale cui appartiene. L’uomo rischia di distruggere la sua matrice, l’ambiente dal quale ricava tutti gli elementi indispensabili alla sua esistenza, e così rischia di rovinare se stesso giacché, come Bateson amava ripetere, la creatura che distrugge il suo ambiente distrugge se stessa. L’eccesso di finalismo e la mancanza di saggezza sistemica sono sempre puniti.
La mancanza di saggezza sistemica è sempre punita. Si può dire che i sistemi biologici – l’individuo, la cultura e l’ecologia – sono in parte i sostegni viventi delle loro cellule e organismi componenti. Nondimeno i sistemi puniscono ogni specie che sia tanto poco saggia da opporsi alla propria ecologia. Chiamate pure Dio le forme sistemiche, se volete (Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Mind, p. 440).
A quanto pare, questo Dio eco-sistemico è molto esigente. Sottovalutare e trascurare l’inconsapevole, sia esso fisico (il mondo naturale) o psichico (l’inconscio della psicologia dinamica) è sempre un grave errore che in ultima analisi si paga col dolore e la (auto) distruzione. Su questo tema della coscienza ignara e tracotante (ύβρις) Bateson giunge addirittura a fondare una sua personale interpretazione del mito biblico della cacciata dal giardino dell’Eden. Secondo lui il peccato di Adamo ed Eva, il loro contravvenire ai decreti divini non è consistito nell’atto in sé di cogliere e mangiare il frutto, ma piuttosto nel fatto che i due, per arrivare alla mela ch’era posta su un ramo molto in alto, dovettero ‘cominciare a pensare’. Lavorando parecchio di fantasia, Bateson immagina che per acchiappare la fatidica mela Adamo ed Eva abbiano avuto l’idea di mettere due cassette di legno l’una sopra l’altra. Essi ebbero appunto un’idea, cominciarono a pensare in termini di mezzi per ottenere un fine, e fu questo il loro vero errore: il peccato originale fu commesso nel momento stesso in cui l’uomo cominciò a orientare la propria vita sulla base della sola coscienza finalizzata, trascurando le esigenze sistemiche della mente totale.
Dal peccato originale in avanti, l’uomo e in particolare l’uomo occidentale si è sempre mosso nella direzione di un’unico obiettivo fissato sin dall’inizio: l’emancipazione dell’uomo dalla natura e della coscienza dall’inconscio. Un’emancipazione che ha dato considerevoli frutti, ma che con tutta probabilità si sta spingendo troppo oltre: la coscienza non si è soltanto emancipata dalla natura e dall’inconscio, ma ha finito per contrapporvisi dando luogo a tutta una serie di problematiche che oggi definiamo ‘ecologiche’.

Gregory Bateson nella sua casa di Ben Lomond, California, 1975
Bateson è divenuto uno dei pensatori-guida del movimento ecologista, all’interno del quale taluni parlano con convinzione della necessità inderogabile di compiere il cosiddetto ‘ritorno alla natura’. Il problema sta proprio nell’intendersi su cosa debba significare quest’ultima espressione. Benché gli ecologisti più attenti evitino accuratamente di cadere nell’errore, altri sembrano concepire questo ritorno alla natura come una sorta di abbandono totale alla Grande Madre, di resa incondizionata di fronte alle esigenze del mondo naturale. In questa prospettiva, tutti gli atteggiamenti e i modi di comportarsi ‘in sintonia con la natura’, dalla produzione di marmellate fatte in casa alle estenuanti sedute di birdwatching, assumono automaticamente una connotazione positiva francamente risibile. Questo ecologismo d’accatto sembra più una fuga che una risposta di fronte ai problemi ecologici ed è chiaro che il pensiero dei veri ecologisti come Bateson non vi ha nulla a che spartire. In realtà l’ecologismo batesoniano rifiuta tanto l’unilateralità della coscienza quanto quella della natura inconsapevole. Ciò di cui c’è veramente bisogno è al contrario un movimento di sintesi armonica tra natura e cultura.
È caratteristico degli anni Sessanta che un gran numero di persone si rivolga agli stupefacenti psichedelici per cercarvi una qualche sorta di saggezza o di allargamento della coscienza, e io ritengo che questo sintomo della nostra epoca nasca probabilmente come un tentativo di compensazione per il nostro atteggiamento troppo finalistico. Non sono sicuro che la saggezza si possa conquistare per questa via. Ciò che è necessario non è solo un rilassamento della coscienza per lasciar scaturire la materia inconscia: questo è semplicemente barattare una concezione parziale dell’io con un’altra concezione parziale. Ho idea che quel che occorre sia una sintesi delle due concezioni, e ciò è più difficile.
La mia esigua esperienza con l’LSD mi ha portato a credere che Prospero fosse in errore quando affermava che ‘siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni’. Mi è sembrato piuttosto che il puro sogno fosse, come la pura finalità, piuttosto scipito: non era la sostanza di cui siamo fatti, ma solo brandelli e frammenti di quella sostanza. I nostri fini coscienti, analogamente, sono solo frammenti e brandelli. Il punto di vista sistemico è un’altra cosa ancora (Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Mind, p. 321).
Il rimedio all’eccessivo finalismo della coscienza è la realizzazione di una saggezza che sintetizzi armonicamente gli elementi consci e inconsci della mente totale. Il resto è errore, o noia.
La ricerca della grazia e l’arte
Secondo Bateson il rimedio alla tendenza finalistica della coscienza consiste nella realizzazione di una saggezza che sintetizzi armonicamente gli elementi consci e inconsci della realtà mentale. Alla ‘saggezza dei tempi brevi’, orientata sulla base del solo finalismo cosciente, e di conseguenza volta al semplice soddisfacimento degli scopi più prossimi dell’individuo, il pensiero sistemico sostituisce la ‘saggezza dei tempi lunghi’ che si spinge oltre agli incalzanti obiettivi della coscienza elaborando un’immagine completa della mente totale. Questo processo di integrazione dei livelli mentali ha un nome importante, niente di meno che: grazia. Mentre l’eccessivo finalismo dell’io cosciente spinge l’uomo in dis-grazia, la comunicazione attiva e proficua tra i livelli mentali può elevarlo sino a uno stato di grazia. Ispirato dallo scrittore inglese Aldous Huxley, Bateson sostiene che il conseguimento della grazia è il problema di fondo che affligge tutti gli esseri umani.
Aldous Huxley era solito dire che il problema fondamentale dell’umanità è la ricerca della grazia. Egli usava questa parola nel senso in cui credeva fosse usata nel Nuovo Testamento; tuttavia la spiegava in termini suoi. Egli sosteneva (come Walt Whitman) che gli animali si comportano e comunicano con una naturalezza che l’uomo ha perduto. Il comportamento dell’uomo è corrotto dall’inganno – perfino contro se stesso – dalla finalità e dall’autocoscienza.
Secondo l’opinione di Aldous, l’uomo ha perso la ‘grazia’ che gli animali ancora possiedono. Nei termini di questo contrasto, Aldous sostiene che Dio assomiglia agli animali più che all’uomo: Egli è idealmente incapace di inganni e di confusioni interne.
Nella scala complessiva degli esseri quindi, l’uomo è come situato da una parte, ed è privo di quella grazia che gli animali possiedono e che Dio possiede (Gregory Bateson, Steps to an ecology of Mind, pp. 128-129. Tr. it. pp.160-161).
Queste parole risuonano in profondità. Se siamo onesti con noi stessi non possiamo non riconoscere che ciò cui tutti in fin dei conti aspiriamo è proprio la grazia, qualunque cosa si intenda con questa carismatica parola. Tranne qualche esistenza particolarmente felice – ma bisogna poi vedere – e qualche frangente di spesso inattesa comunione col mondo che ci circonda, siamo tutti in qualche misura dis-graziati. Siamo usciti da un’unità cui vogliamo tornare, anche se non siamo più disposti a tornarvi nelle condizioni di una talpa inconsapevole. Prima della mitica cacciata dal paradiso terrestre, l’uomo conduceva una vita circoscritta in ogni sua parte dal possente abbraccio della matrice naturale. Egli era sì privo della coscienza, ma compensato di questa mancanza dalla perfetta ‘naturalezza’ della sua vita, da una certa grazia che accompagnava ogni suo atto. Non appena tuttavia riuscì a realizzare un sia pur piccolo barlume di coscienza, che nei termini del mito biblico equivale a dire che colse i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, madre natura mostrò un volto meno benevolo. Uscito dall’unità originaria in cerca di autonomia, l’uomo non ebbe più ripari e dovette caricarsi sulle spalle l’intera responsabilità delle sue azioni. Soprattutto, la grazia e la naturalezza originarie sembrarono perse per sempre. Guidato dalla coscienza, l’uomo imparò a sopravvivere con dolore e fatica, ma non ebbe più nulla di grazioso o naturale: cominciò a dubitare, tentennare, tergiversare, trasformandosi nel più sgraziato e traballante degli esseri viventi (ma anche il più fascinosamente ostinato e resiliente, bisognerebbe aggiungere).
A differenza nostra, le bestie compiono con straordinaria spontaneità anche i gesti più efferati: si uccidono, si divorano l’un l’altra, ma in virtù della loro naturalezza sembrano sempre lontanissimi dal peccato. Come si potrebbe definire ‘peccatore’ il leone che sventra la gazzella o il coccodrillo che divora i suoi piccoli? Niente coscienza, niente peccato, persino gli avvocati si appellano ogni volta che è possibile all’incapacità di intendere e di volere. Insomma, benché orgogliosi della nostra superiore consapevolezza, nell’osservare la spontaneità con la quale gli animali conducono la loro vita noi uomini non possiamo fare a meno di rimpiangere il paradiso perduto e quella grazia naturale che sembra essersi persa per sempre. Ed ecco allora la domanda di tutte le domande: come possiamo rientrare in quell’unità armonica dalla quale siamo fuoriusciti, senza tuttavia rinunciare a questa consapevolezza il cui sviluppo è costato tanta fatica a noi e ai nostri padri? Detta in termini più specificamente batesoniani: come possiamo perseguire la saggezza sistemica, ovvero l’integrazione dei diversi livelli mentali di cui un estremo è detto coscienza e l’altro estremo è detto inconscio? “Le ragioni del cuore devono essere integrate con la ragione della ragione” (Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Mind, p. 129. Tr. it., p. 161).
Ma questa concezione della grazia ecosistemica è compatibile con quella, più tradizionale, invalsa nell’arte e nella religione? La grazia di cui parla Bateson è la stessa di cui parlano Paolo di Tarso, o Winckelmann o Shaftesbury? Stiamo parlando della stessa cosa?

William Hogarth, Autoritratto con il cane
Partiamo dalla grazia come qualità estetica, quella per cui si dice che una data persona è graziosa, che i movimenti di una ballerina sono aggraziati, che una certa opera d’arte esprime una grazia ineffabile. Senza pretendere di sviluppare un discorso esaustivo, visto peraltro che l’estetica è una degli ambiti filosofici più labirintici in assoluto, possiamo tuttavia concentrarci su un aspetto decisivo: sia nel linguaggio quotidiano, sia in quello specialistico degli storici dell’arte, il concetto di grazia si distingue nettamente da quello di bellezza. In sintesi, mentre la bellezza può essere descritta oggettivamente ed è inquadrabile in canoni determinati, la grazia sembra non conoscere alcuna regola o possibile oggettivazione, e infatti l’aggettivo che meglio di ogni altro la qualifica è ‘ineffabile’. Il pittore inglese William Hogarth definiva la grazia come una linea serpentina (serpentine line), e in effetti quest’espressione rende conto di una qualità estetica che rifiuta di cristallizzarsi in una forma definita e tende a sfuggire a ogni descrizione normativa.
La grazia è dunque uno charme ineffabile, difficile da definire o circoscrivere, ma non solo. La tradizione estetica insiste anche su un altro punto: sin dall’antichità la grazia, o ‘vera bellezza’ è stata considerata l’espressione della virtù morale, il segno della bellezza interiore. A questo riguardo sono illuminanti le parole di Plotino:
Se, peraltro, l’anima indugia in seno allo Spirito, ella contempla, sì, cose belle e venerabili, ma, a dire il vero, non possiede ancora completamente quello che cerca; poiché ella si accosta, allora, per così esprimerci, a un volto bello sì ma incapace di attirare lo sguardo, perché non splende in esso la grazia che scintilla sulla bellezza. Ond’è che pure su questa terra si deve riconoscere che la bellezza, piuttosto che essere simmetria, è quel che risplende sulla simmetria: e qui risiede il suo fascino.
Infatti, perché mai in un volto vivente risplende di più il raggio della bellezza, mentre su un volto morto ne resta appena una debole traccia, prima, s’intende, ch’essa cada nel disfacimento della carne e della sua proporzionata compagine? Ma, anche tra le immagini, perché mai sono più belle quelle più ricche di vita anche se le altre sono meglio proporzionate; e perché mai un uomo, brutto magari da vivo, è sempre più bello di un uomo che è bello solo in effigie? Gli è che costui è desiderabile in più alto grado; ma è più desiderabile perché ha un’anima… (ENNEADI, VI, 7, c. 22, 179. Versione di Vincenzo Cilento, Bari, Laterza, 1949)
Vera bellezza è soltanto quella su cui risplende la luce della grazia, e del resto la grazia è una luce dell’anima. Ecco perché sfugge a ogni regola: essa è ineffabile perché partecipa della stessa ineffabilità dell’anima. La grazia, in quanto animica, trascende la legge. Ed ecco che ritroviamo il discorso di Bateson: le leggi, le regole della bellezza cui la grazia si sottrae, sono prodotti della razionalità cosciente, mentre per attingere alla χάρις è necessaria l’integrazione dei circuiti mentali globali, bisogna passare al livello della mente integrata.
Anche il significato religioso della grazia può essere ricondotto al discorso di Bateson. Nell’Antico Testamento il concetto è reso dal vocabolo ebraico hen, e sta a significare soprattutto l’atteggiamento benevolente di Dio verso il suo popolo, il popolo d’Israele. Questa nozione, tuttavia non indica tanto una vera e propria dottrina, quanto un’esperienza storica completa. Nell’Antico Testamento non esiste una compiuta sintesi dottrinaria della grazia, mentre il concetto fondamentale è piuttosto quello di ‘legge’, il quale indica i comandamenti e le norme che Dio ha dato al popolo di Israele per mezzo di Mosè. La vera dottrina è quella della legge mosaica, mentre la grazia rappresenta più che altro un importantissimo fatto storico (Cfr. I. Hermann, J. Auer, voce ‘Grazia’, in Heinrich Fries (a cura di), Dizionario Teologico, vol. 2, Brescia, Queriniana, 1967, pp.38-55).
Nel Nuovo Testamento al contrario la nozione di grazia, espressa dal vocabolo greco χαρις, diviene il perno fondamentale intorno al quale ruota tutto il messaggio cristiano. Soprattutto Paolo di Tarso mette la grazia al centro del suo discorso: la contrappone alla legge mosaica affermando che la salvezza non viene all’uomo attraverso la semplice ottemperanza alla legge, bensì grazie a un libero dono di Dio (Cfr. Rom. 3,24; II Cor., 8,9; Gal. 1,6; 5,4.)
Non basta obbedire esteriormente all’antica legge di Mosé per essere salvi; serve invece che si verifichi la grazia, un atto divino i cui moventi e criteri sfuggono alla comprensione umana. In un certo senso, come nota Günther Bornkamm (G. Bornkamm, Paolo apostolo di Gesù Cristo, Torino, Editrice Claudiana, 1977, p. 144), la grazia infrange la legalità e instaura un nuovo ordine pur non minacciando la struttura preesistente del diritto, come a dire che la grazia non ha nulla a che fare con l’anarchia.
Anche in questo caso, quindi, la grazia trascende la legge, le regole. Grazie a essa al vecchio ordine legale ne subentra un altro le cui linee direttive restano occulte alle limitate capacità di comprensione della coscienza umana. Sia nella visione religiosa della grazia sia in quella batesoniana la grazia produce un superamento della visione cosciente della realtà attraverso l’integrazione di elementi di cui la coscienza non sa rendere piena ragione. Siamo nell’ambito della mente totale. Infine, anche il concetto giuridico di grazia è congruente col discorso di Bateson: in quest’accezione la grazia è un decreto del monarca o del capo dello stato in ragione del quale a un condannato viene condonata in tutto o in parte la pena. In determinate circostanze la razionalità dell’organizzazione sociale può essere soppiantata da motivazioni di ordine differente. L’idea di fondo è sempre quella: la grazia scavalca la legge, il razionale ordinamento normativo (senza tuttavia ingenerare anarchia).
Il discorso è ora più chiaro, in quanto sia la tradizione estetica che quella religiosa e infine quella giuridica concepiscono la grazia come ciò che supera e soppianta le leggi e le regole oggetto di considerazione da parte della coscienza. La grazia è sempre in qualche misura un correttivo degli eccessi della finalità cosciente. Quando Bateson afferma che il problema della grazia è un problema di integrazione dei circuiti coscienti e incoscienti della mente totale, che è poi l’essenza della visione ecosistemica, egli evoca in qualche modo l’intero spessore culturale del vocabolo. C’è tuttavia una notevole differenza, perlomeno rispetto al concetto religioso: mentre la grazia religiosa, la χαρις, è un libero dono di Dio, la grazia batesoniana può essere oggetto di una scelta deliberata. Secondo Bateson infatti l’uomo dispone, almeno potenzialmente, dei mezzi per rendersi ‘aggraziato’, i quali consistono in tutte quelle attività umane che richiedono una partecipazione combinata di tutti i livelli della mente totale: l’umorismo, l’amore, l’afflato spirituale (autentico), e , soprattutto, l’arte.
Io sostengo che l’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo, la sua estasi, a volte, quando riesce; la sua rabbia e agonia quando a volte fallisce (Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Mind, p. 129. Tr. it., p. 161).
E se il vero atteggiamento ecologico fosse, dopotutto, un atteggiamento artistico? Ci può stare. L’uomo guidato dalla sola finalità cosciente finisce per perdere il contatto con la sua matrice naturale cadendo così in una condizione di dis-grazia. Per rimediare occorre riaprire il dialogo con quelle parti della mente totale che sono rimaste escluse dalla resezione cosciente, e l’arte è un ottimo modo per farlo.

Isadore Duncan
Sono debitore al dottor Anthony Forge di una citazione di Isadore Duncan: “Se potessi dire cosa significa non avrei bisogno di danzarlo”. […] Credo che ciò che Isadore Duncan, o qualunque altro artista, cerca di comunicare, sia piuttosto qualcosa del genere: “Questo è un tipo particolare di messaggio parzialmente inconscio. Lasciamoci andare a questo tipo particolare di comunicazione parzialmente inconscia”. O forse: “Questo è un messaggio relativo alla superficie di separazione tra coscienza e inconscio” (Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Mind, pp. 137-138. Tr. it., p. 171-172).
L’arte fornisce informazioni sulle componenti del processo mentale che restano confinate al di fuori della coscienza, correggendone le tendenze unilateralistiche, e in questo consiste la sua natura ecologica.
Il vero nemico si chiama confort
Come s’è visto, non è vero che l’Occidente ha sempre avuto un atteggiamento dispotico nei confronti dell’ambiente in cui vive; in realtà ha spesso pensato alla natura come a un giardino da coltivare o un bene prezioso da amministrare con saggezza, in alcuni casi spingendosi persino a considerare tutti gli esseri viventi come dotati di pari dignità di fronte a Dio o alla complessità dell’universo. L’uomo-despota può anche aver prevalso in molti contesti e tradizioni, ma la controparte collaborativo-egualitaria si è sempre e comunque fatta sentire instaurando una dialettica tutt’altro che scontata dalla quale sono scaturite delle autentiche perle come il pensiero ecosistemico di Gregory Bateson. Insomma, il quadro è più sfaccettato del previsto.
Tutto questo però vale soltanto per la speculazione concettuale, perché se dalle teorie si passa ai comportamenti concreti la situazione è diversa. Almeno dalla rivoluzione industriale in avanti, l’agire concreto dell’Occidente capitalistico è stato sempre improntato a una logica di sfruttamento dell’ambiente naturale volta a conseguire sostanzialmente due obiettivi: da un lato liberare per quanto possibile l’esistenza umana (almeno di un certo numero di privilegiati) dalla fatica e dal dolore, dall’altro consentire ad alcuni individui di accumulare ricchezze in misura molto superiore ai loro bisogni reali, che alla fine è il fondamento ultimo di tutti gli agi possibili. Come hanno spiegato Baudrillard e più recentemente Byun-Chul Han, se accumulo denaro in abbondanza posso illudermi di tenere la fatica, il dolore e persino la morte a distanza.
Oggi però la logica dello sfruttamento intensivo ci ha condotto sino a un punto di non ritorno. Dopo le millanterie prezzolate degli skeptical environmentalist, ai giorni nostri non v’è più alcun dubbio che l’antropizzazione consumistica stia alterando in modo ineluttabile l’equilibrio dell’ecosistema che consente alla nostra specie di sopravvivere. Siamo quasi tutti convinti della necessità di voltare decisamente pagina, eppure sul piano dei comportamenti facciamo fatica a farlo. Tra l’altro, siamo a tal punto imbevuti del concetto faustiano di progresso ad infinitum che persino i più edotti tra noi sono disponibili a parlare di sviluppo sostenibile (lo sviluppo deve comunque esserci), mentre anche solo citare la decrescita, per felice o infelice che sia, è assolutamente deprecated, un tabù più grave dell’incesto e del cannibalismo. Il povero Serge Latouche, che è evidentemente uno studioso onesto e bene informato, continua a sciorinare evidenze statistiche ricevendone in cambio raffiche di oltraggi e contumelie.
Ma perché, a dispetto dell’evidenza, non riusciamo davvero a cambiare, a sostituire, come diceva Bateson, la saggezza dei tempi brevi con quella dei tempi lunghi? Perché non riusciamo a renderci aggraziati? Secondo me il vero ostacolo, il nemico numero uno ha un nome preciso e un profondo radicamento nella nostra struttura neurofisiologica: il confort. Già il Corano aveva le idee chiare, affermando che “La sicurezza vi ha perduti”, e qualche secolo più tardi il mistico Sufi Ibn al-Arabi fu ancora più esplicito:
La sicurezza in cui si dilettano le anime si oppone all’intimità con Dio. Questa vanità dà al servo una sensazione di benessere, quando si lascia andare. Ma così non sarà mai felice. Infatti la sicurezza distrugge la vita spirituale e distrugge l’uomo che ne gode, facendogli perdere tempo. E quando torna suo malgrado, si accorge di avere le mani vuote e di non aver ottenuto nulla (Ibn al-Arabi, Libro delle Teofanie).

Otto von Bismarck
Qui si parla di sicurezza anche perché nel XII secolo d.C. il concetto di confort era di là da venire, ma il tema è lo stesso, sia pure in salsa Sufi. Nell’età moderna la vera chiave di volta per l’instaurazione del regno della sicurezza e della comodità fu l’invenzione da parte di Bismarck della cosiddetta ‘assicurazione sociale’: fu infatti l’impero tedesco a introdurre verso la fine dell’Ottocento l’assicurazione obbligatoria contro le malattie e gli infortuni, e anche quella di invalidità e vecchiaia per i salariati. Se non è possibile concepire una terra senza il male, almeno cerchiamo di garantirci contro gli effetti perniciosi del medesimo! Fu sicuramente una conquista di civiltà, eppure in un certo senso fu anche la ratificazione, l’ufficializzazione definitiva di una ricerca del benessere a tutti i costi che ci sta portando alla rovina. Ma cominciamo dall’inizio, un inizio che più inizio di così non si potrebbe.
Già le prime forme di vita in assoluto, ovvero i batteri e gli archae, sono in grado di mettere in atto i due comportamenti essenziali per sopravvivere: avvicinarsi alle fonti di sostentamento (cibo, luce), e allontanarsi dalle situazioni pericolose (sostanze tossiche). Atti molto elementari, ma in buona sostanza tutti gli esseri viventi continuano ancor oggi a fare la stessa cosa, ovvero sforzarsi di evitare i guai e ricercare le esperienze che ci fanno stare bene.
A mano a mano che il sistema nervoso dei vertebrati e soprattutto dei mammiferi si è fatto più articolato e complesso, anche le strategie di sopravvivenza sono divenute più sofisticate. Se facciamo un salto temporale sino all’Homo Sapiens, grosso modo 300.000 anni fa, o meglio ancora sino all’origine del linguaggio orale, probabilmente 40.000 anni fa, vediamo all’opera una strategia di enorme successo evolutivo: l’apprendimento basato sulla ricompensa o rinforzo. Sappiamo di che si tratta. I nostri progenitori in buona sostanza andavano in cerca di cibo, riparo e occasioni riproduttive (non che noi contemporanei, per la maggior parte, facciamo qualcosa di molto diverso, eccezion fatta, forse, per la novità dello status sociale), e qui a titolo esemplificativo ci concentriamo sul caso più semplice del cibo. Quando un Sapiens scopriva una nuova pianta o animale che aveva l’aria di essere nutriente e gustosa, provava a mangiarla, e se tutto andava bene ne otteneva sia nuove energie disponibili sia un senso di benessere diffuso. È il classico schema tripartito di 1. stimolo (la scoperta della pianta o dell’animale commestibili), 2. comportamento (l’atto di mangiarli) e 3. rinforzo (energia e senso di benessere). Se invece la pianta o l’animale erano velenosi, portatori di sostanze tossiche per l’uomo, il rinforzo invece di essere positivo diventava negativo, di solito un senso di disgusto, un bel mal di pancia o se le cose si mettevano proprio male il decesso. Inoltre, quello che noi oggi chiamiamo sistema neurofisiologico della ricompensa o della ricerca produceva un bella scarica diffusa di dopamina che contribuiva a fissare nella memoria i dati fondamentali da apprendere per il futuro: il luogo e le condizioni in cui era stato ritrovato il potenziale alimento, il suo sapore e naturalmente il tipo di rinforzo positivo o negativo cui dava origine. Con questa semplice procedura di apprendimento emotivo-cognitivo e poche altre simili, l’umanità si è attrezzata per sopravvivere attraverso i millenni, e va detto che fin verso l’inizio dell’Ottocento gli uomini hanno condotto un’esistenza concentrata sulle finalità elementari dell’alimentazione, del riparo/sicurezza (quindi anche la guerra) e della riproduzione. Poco più di questo. Tranne pochissimi soggetti che potevano dedicarsi alla vita di corte o allo studio dei libri sacri, tutti gli altri erano ridotti all’abc della sopravvivenza. Nel suo bel libro sul ‘viaggio dell’umanità’, Oded Galor lo spiega bene:
Nel XVII secolo il filosofo inglese Thomas Hobbes scriveva senza mezzi termini che la vita umana era “sgradevole, brutale e breve”. All’epoca, un quarto dei neonati moriva di freddo, fame e malattie varie prima di aver compiuto un anno; spesso le donne perivano durante il parto e l’aspettativa di vita non superava quasi mai i quarant’anni. Era un mondo che sprofondava nelle tenebre al calar del sole, un posto dove donne, uomini e bambini faticavano per ore solo per portare l’acqua nelle loro case, si lavavano di rado e trascorrevano i mesi invernali in abitazioni piene di fumo. Era un periodo in cui la maggior parte delle persone viveva in villaggi rurali dispersi, si allontanavano raramente dal posto dov’erano nate, sopravvivevano con magre diete monotone e non sapevano né leggere né scrivere. Una triste epoca in cui, quando arrivava una crisi economica, la popolazione non doveva semplicemente tirare un po’ la cinghia, ma c’erano carestie diffuse e la gente moriva in massa (Oded Galor, Il viaggio dell’umanità, Rizzoli, Milano, 2022, p.9)
Ιl mondo di pochi secoli fa offriva poco più della mera sopravvivenza fisica, e qui siamo nelle relativamente civilizzate isole britanniche di Thomas Hobbes. Ma poi, più o meno a partire dalla fine del Settecento, tutto è cambiato con lo sviluppo incrementale delle conoscenze scientifiche e delle nuove tecnologie che hanno consentito la produzione industriale in serie, lo sfruttamento intensivo delle fonti energetiche, l’inurbazione di massa, il progresso della medicina e tutto quel che sappiamo bene perché ci porta dritti sino al nostro mondo. In questa nuova era del benessere diseguale (giacché non tutte le aree del mondo godono in egual misura di queste trasformazioni), nella quale un normalissimo cittadino gode di agi che nemmeno i faraoni egizi potevano permettersi, l’apprendimento basato sulla ricompensa non si applica più solo per favorire la sopravvivenza (cibo, riparo e opportunità riproduttive), ma anche per assicurare dosi sempre maggiori di benessere generalizzato, sia fisico che psicologico. È la società del confort, o forse meglio della confort-zone, che ha sostituito la sinusoide precedente oscillante tra fatica e riposo, tensione e rilascio, con una curva asintotica che converge all’infinito verso uno stato di piacere diffuso e assenza di tensioni. Gli estremi del pieno piacere e della piena soddisfazione, che per essere goduti appieno richiedono di esser prima passati attraverso gli opposti dello sforzo e della fatica, sono quasi scomparsi, mentre al loro posto si è ingenerato uno stato pre-edenico di rilassamento compiaciuto e ininterrotto, forse un po’ ebete ma per la maggior parte di noi largamente preferibile alle vicissitudini del blood, sweat and tears. Anche se abito al secondo piano, non ho alcuna busta della spesa e so benissimo che fare le scale mi farebbe bene, prendo comunque l’ascensore che mi evita la fatica e mi garantisce un piccolo risparmio di calorie. Anche se il mio ufficio dista da casa meno di un chilometro di strada pianeggiante, anziché incamminarmi a piedi o inforcare la bicicletta prendo comunque l’automobile sobbarcandomi le discutibili gioie del parcheggio a pagamento. Anche se mangiare poco e bene mi fa sentire sveglio ed efficiente, preferisco tenere il frigorifero stracolmo di alimenti prossimi alla scadenza e al minimo accenno di tristezza o depressione gettarmi disperato su cibi ipercalorici che mi compensano psicologicamente. E ancora: anche se si tratta di gesti minimi e assolutamente non faticosi, tutte le aziende automobilistiche hanno sostituito i comandi interni delle macchine, come la manovella per alzare i cristalli, la leva del freno a mano, ecc., con un unico gesto che si ripete sempre uguale: la pressione su un pulsante. A questo proposito il neuroscienziato Vittorio Gallese parla di progressiva estinzione del repertorio gestuale umano.

Judson Brewer
Quando lo stimolo naturale si affievolisce, ci pensano gli esperti di marketing e comunicazione a soffiare prontamente sul fuoco. Nel loro sforzo per stimolare la volontà di acquisto dei clienti, essi utilizzano sistematicamente due tecniche, ben descritte da Judson Brewer nel suo Unwinding Anxiety, che amplificano gli effetti del circuito dopaminico della ricompensa. La prima, impiegata con particolare successo dai designer di videogiochi, è quella del rinforzo intermittente. Per qualche motivo noi mammiferi reagiamo con maggiore entusiasmo a una ricompensa inaspettata piuttosto che a una sistematica, che si ripete periodicamente; quest’ultima, infatti, dopo qualche ripetizione comincia a perdere la sua efficacia. Ecco perché il passaggio di livello nella game console deve avvenire in modo non del tutto prevedibile, scontato; un eccesso di aspettativa rende tutta la dinamica molto meno eccitante. E lo stesso vale per quasi tutti gli stimoli.
L’altro trucco, se possibile ancora più devastante, è quello della ricompensa immediata: se al comportamento innescato dallo stimolo (ad esempio l’ordine online di un capo di abbigliamento modaiolo) segue una ricompensa quasi istantanea (a consegna dell’abito stesso entro 24 ore) l’assuefazione a questo tipo di abitudine d’acquisto risulta assai più potente. Con effetti dannosissimi per la psiche dei clienti che si disabituano alla normale dilazione temporale delle ricompense, ma di questo ben poco può importare ai marketing manager valutati ogni mese in base al raggiungimento di target commerciali sempre più ambiziosi.
L’epidemia di assuefazione da confort asintotico dilaga senza limiti, e c’è di che preoccuparsi. Siamo arrivati al punto di dotare le moderne cappe di aspirazione di connessione a internet, così mentre friggiamo le zucchine possiamo postare su instagram o seguire i grafici di borsa online. Ci siamo anche inventati dei barbecue dotati di intelligenza artificiale che indicano il momento giusto per girare le salamelle, dimenticando che se c’è una cosa al mondo che il maschio medio occidentale è orgoglioso di saper fare al meglio, è proprio cuocere la carne sul barbecue.
Non solo, sappiamo anche che è sempre la dinamica dell’apprendimento basato sulla ricompensa a renderci dipendenti dalle sostanze stupefacenti, dalla pornografia o dal sesso compulsivo, dal piacere di infliggere dolore agli altri o a se stessi o da qualsiasi altra abitudine coatta. Per non parlare di ‘sorella ansia’, che emerge non appena cessiamo di soddisfare ogni nostra minima esigenza e spesso contribuisce a precipitarci nel baratro delle suddette dipendenze.
La verità è che tutte le dipendenze sono ormai riassunte in un’unica, gigantesca, proliferante dipendenza onnicomprensiva: la dipendenza dal confort e dalla sua menzognera promessa di quasi-paradiso-in-terra. Nel caso delle droghe sembra esservi anche un esito paradossale: con la loro alternanza di estasi chimiche e violente crisi di astinenza, le sostanze stupefacenti reintroducono a forza nella vita degli individui quella ciclicità di tensione e rilascio che il confort asintotico tende a estinguere. A quanto sembra non siamo biologicamente strutturati per vivere in uno stato pre-edenico e alla fine usiamo ogni mezzo a nostra disposizione per tornare alle dinamiche esistenziali tipicamente umane.
Tutto questo vale a livello individuale ma anche al livello delle organizzazioni. Se riescono a farla franca o a trovare un qualche interstizio nel quadro normativo, molte aziende preferiscono disperdere i rifiuti tossici in atmosfera o nei corsi d’acqua anziché seguire le procedure previste dalla legge o semplicemente il buon senso. Se non sono costrette altrimenti dall’occhio vigile delle autorità, preferiscono fare così perché ‘conviene’ da un punto di vista economico, ma anche e soprattutto perché è più comodo, non richiede molto impegno organizzativo. Inquinare è comodo, essere sostenibili no.
Il confort regna sovrano ed è all’origine di moltissimi problemi, eppure nessuno gli punta l’indice contro. I maître à penser contemporanei gli volteggiano attorno, ma nessuno di loro osa davvero calare sulla preda. Si parla di società liquida, di società della stanchezza, di epoca del nichilismo o delle passioni tristi, ma dietro tutte queste denominazioni si nasconde lo stesso motore perverso dell’assuefazione da confort asintotico. Prendiamo il nichilismo, che viene definito in termini di eclissi dei valori: ma cos’altro sono i valori se non ciò per cui siamo disposti ad abbandonare la nostra zona di confort? Se il mio valore-guida è la lotta contro il fascismo, o la causa femminista, o l’abolizione della caccia, o la diffusione del cricket in Italia, sarò disposto a sobbarcarmi grandi sacrifici pur di raggiungere i miei obiettivi ideali. E tutto si potrà dire di me tranne che sono un nichilista. Se invece non credo più a nulla e me ne resto comodo nella mia zona di confort nonostante il mondo se ne stia andando chiaramente a catafascio, ecco che in questo caso mi caratterizzo come nichilista. Lo stesso dicasi della società liquida, che è tale proprio perché non essendoci più una chiara alternanza ciclica tra tensione e rilascio, fatica e riposo, desiderio e soddisfazione, la permanenza ad libitum nella zona di confort asintotico finisce per essere vissuta come un limbo avvolgente dai contorni indefiniti. Il contrario di quanto auspicato da William Blake, secondo il quale “il saggio conosce i contorni, e per questo li traccia”. Il continuo permanere nel limbo della confort-zone fa anche sì che qualsiasi sia pur minima fatica, ogni sia pur minimo incremento di tensione venga rigettato come intollerabile. Ed ecco delinearsi la società della stanchezza descritta da Byung-Chul Han, nella quale il soggetto umano si affatica da mane a sera per mantenere intatta la sua zona di confort, senza essere costretto da alcuno se non da se stesso, in una paradossale logica di auto-sfruttamento.
La parola ‘confort’ condivide lo stesso etimo latino di ‘confortare’, nel senso di cum fortitudo, per indicare qualcosa che dà forza, che fortifica. Nel suo significato originario il confort dovrebbe metterci a disposizione un esubero di energia di cui disporre alla bisogna, mentre vediamo che non è affatto così e che anzi questa pretesa di extra–fortitudo ci sta addirittura mettendo in discussione come specie. Gli unici che hanno approfondito con spirito di serietà il concetto di confort sono i medici e soprattutto gli infermieri, per i quali il significato etimologico conserva ancora una sua validità: è innegabile che chi è disabile o malato abbia diritto al suo sussidio di extra-fortitudo per reggere le difficoltà e ove possibile garantirsi una qualità della vita accettabile. Diverso è invece il caso di chi, ancora integro in tutte le sue funzioni vitali, ambisca a liberarsi della sua dose (il termine non è usato a caso) di fatica e tensione quotidiana. Pur essendo anche quest’ultima una pretesa legittima, visto che la fatica non ce l’ha prescritta alcun dottore, nella realtà dei fatti esagerare in questa volontà di auto-anestetizzazione produce esiti nefasti. L’assuefazione da comfort asintotico genera mostri, o meglio ci trasforma in mostri irrequieti, ansiosi e insoddisfatti.
Detto questo, qualcosa comincia a muoversi, qualcuno comincia a capire. Sono sempre più numerosi gli individui che sfidano i pericoli dei mari o delle montagne per togliersi dalla zona di comfort e sperimentare nuovamente la rigenerante alternanza di tensione e rilascio. Una minoranza sempre più nutrita va in cerca del lato wild delle cose per sentirsi ancora viva e reattiva, ad esempio dedicandosi al cosiddetto turismo adventure nella giungla amazzonica o nelle distese ghiacciate dei poli. Molti giovani disertano gli sport tradizionali per dedicarsi ai cosiddetti lifestyle sport come parkour, freeclimbing, surf, skateboarding, BMX, dei quali tutto si può dire fuorché che siano comodi. Un nuovo brand di abbigliamento sportivo molto popolare tra i giovanissimi si chiama, non a caso, Seek Discomfort.
Persone e situazioni di questo genere ci sono sempre state, ma oggi sembrano cominciare a configurarsi come veri e propri movimenti, soprattutto nell’ambito delle generazioni Millennial e Z. Il problema è che manca una vera consapevolezza di quale sia il problema, il fattore scatenante tutti di tutti questi disagi, che è appunto l’assuefazione da confort asintotico. E allora che facciamo, what are we going to do the rest of our lives?
Relazionismo sistemico e confort sostenibile
Il confort asintotico globalizzato è chiaramente insostenibile. A quanto pare, in poco più di duecento anni ha contribuito a compromettere un ecosistema antropico che, se partiamo dalla comparsa del linguaggio verbale, ha tirato avanti tra alterne fortune per quarantamila anni. Se invece partiamo dal periodo che chiamiamo ‘storico’, ovvero dall’esordio della scrittura, gli anni sono circa 3500. Insomma il danno è grosso che più grosso di così non si potrebbe.
Siccome il confort asintotico dà assuefazione, cercar di convincere la gente a rinunciarvi (almeno in parte) non sembra aver grandi probabilità di riuscita; se anche tutti i migliori pubblicitari del pianeta unissero i loro sforzi per convincere le persone ad assumere uno stile di vita più frugale, ad acquistare soltanto prodotti carbon negative, eccetera, i risultati sarebbero comunque insufficienti.
Dal canto loro le aziende per sopravvivere devono vendere i loro prodotti a un pubblico assuefatto alle comodità contemporanee, e per quanto si sforzino di rendere i cicli produttivi sostenibili sono comunque legate a dinamiche di mercato di stampo consumistico-dissipativo.
Siamo in trappola, come ne usciamo? È chiaramente necessario un radicale cambio di mentalità, ma resta da capire in che direzione, visto che il terreno è irto di insidie e trabocchetti. Personalmente credo che proprio la distinzione tra elementalismo e relazionismo possa tornare utile. Il confort asintotico, legato al benessere di un singolo individuo o di un singolo gruppo umano, emerge da una visione unilateralmente elementalista. Gli obiettivi di breve termine prevalgono su quelli di lungo termine e il vantaggio della parte prevale su quello del sistema nel suo complesso. Tipica di questo atteggiamento che privilegia gli interessi della parte è la dialettica problema-soluzione: quando qualcosa ci ostacola e minaccia il nostro benessere noi cerchiamo una soluzione, ovvero un comportamento che massimizzi i benefici a nostro favore, anche se magari questi benefici possono andare a discapito di altri o del sistema nel suo complesso. L’etimo della parola ‘soluzione’ parla chiaro: c’è un nodo e lo dobbiamo sciogliere. Peccato però che i veri problemi, quelli che ci minacciano davvero, non hanno quasi mai un solo nodo, ma molti nodi diversi spesso aggrovigliati in matasse indissolubili.

L’economista premio Nobel Herbert Simon
Herbert Simon li chiama ‘problemi a valori multipli’ nel senso che se valorizzi una delle variabili in gioco rischi seriamente di s-valorizzarne un’altra o molte altre. Per fare un semplice esempio, se in un certo settore io decido di puntare su una politica di condivisione della conoscenza open source, sicuramente rendo più democratico il sistema, ma con ciò stesso genero dei problemi di riservatezza e di rispetto del diritto d’autore con il quale molti inventori mantengono le loro famiglie. Oppure pensiamo alla relazione tra tasso di disoccupazione e inflazione: tutte le nazioni vorrebbero avere un tasso di disoccupazione pari a zero, ma siccome secondo la curva di Phillips tra disoccupazione e inflazione esiste una relazione inversa per cui quando scende la disoccupazione sale l’inflazione e viceversa, un tasso di disoccupazione pari a zero produce un movimento inflativo che erode le capacità di spesa della popolazione e quindi la impoverisce. Gli economisti pensano che un tasso di disoccupazione intorno al 2-3% sia preferibile al tasso zero proprio perché il disagio che provoca è gestibile attraverso le politiche sociali e soprattutto perché non produce dinamiche inflative. È chiaro che questa non è una ‘soluzione’ tout court, bensì un punto di equilibrio accettabile, il minore dei mali possibile. E questi sono esempi relativamente elementari: più i problemi sono importanti e più i valori in gioco sono molteplici e intercorrelati. Le grandi questioni politico-economiche sono tutte a valori multipli e per affrontarle servono molte competenze e grande capacità di composizione degli interessi in gioco.
Ma il punto fondamentale è che nessun problema a valori multipli ha un’unica vera soluzione, una spada affilata che tagli di netto il nodo gordiano. Si possono trovare soluzioni alle difficoltà individuali o dei piccoli gruppi, non ai grandi problemi di interesse collettivo che richiedono invece la definizione di uno o più punti di equilibrio. L’approccio sistemico/relazionista non cerca mai soluzioni ma punti di equilibrio tra i diversi valori in gioco, non aspira a un mondo senza il male ma al migliore dei mondi possibili stante l’ineluttabile presenza del male, e in questo senso è forse più vicino alla dialettica hegeliana o marxista che alla logica formale dei filosofi anglosassoni.
Le soluzioni elementaliste finiscono inevitabilmente per ricadere nel gioco perverso del confort asintotico, mentre per affrontare seriamente le sfide ambientali serve votarsi a un pensiero e soprattutto a una prassi relazionista che individui i corretti punti di equilibrio e li persegua tenacemente. A differenza della soluzione, il punto di equilibrio ha un grandissimo vantaggio ecologico: non prevede soddisfazione totale per una sola componente del sistema, ma un’equa (quanto più equa possibile) ripartizione dei benefici tra le diverse componenti: per risolvere un problema posso anche essere da solo, per trovare un punto di equilibrio bisogna essere almeno in due. Peccato che, come constatiamo tutti i giorni, la parola ‘soluzione’ sia sulla bocca di tutti, mentre di ‘equilibrio’ non parli quasi nessuno, nemmeno i politici (solo qualche economista e qualche filosofo scapigliato si azzardano a parlarne, ma di solito restano confinati nei think tank).
Se andiamo a verificare, tutti i grandi problemi ecologici sono a valori multipli. Prendiamo la questione dell’inquinamento, ovvero della ‘presenza di specifiche sostanze o processi fisici nel posto sbagliato’. La presenza di liquami nelle fogne della città non è affatto inquinamento, anzi è il contrario dell’inquinamento, ma se i liquami si trovano in grandi quantità nelle acque libere del fiume Po, il posto è sbagliatissimo e in questo caso si parla a buon diritto di inquinamento. Ora, il problema è che un certo tasso di inquinamento è connaturato alle attività antropiche e quindi non è eliminabile in assoluto, oppure sarebbe eliminabile solo se l’uomo rinunciasse in toto al progresso tecno-scientifico e tornasse a vivere allo stato brado, il che francamente è difficile da immaginare. L’obiettivo è allora quello di trovare un punto di equilibrio che consenta alla specie umana di inquinare in certa misura l’ambiente proseguendo il suo percorso di conoscenza, assicurandosi un livello accettabile di qualità della vita e permettendo all’ecosistema o biosfera in cui vive di rimediare agli eventuali danni mantenendosi in una condizione di equilibrio. Ma sorgono subito mille interrogativi: quale tipo di progresso tecno-scientifico ci interessa perseguire? Cosa intendiamo per livello accettabile di qualità della vita, e poi chi ne avrebbe diritto, tutta la popolazione o solo una parte di essa? E ancora, sappiamo davvero fino a che punto un ecosistema è in grado di ovviare agli squilibri indotti dall’antropizzazione? Per venire a capo di questioni come questa servono molte competenze, nonché la capacità di metterle tutte a fattor comune e di comporre i molteplici interessi in un quadro armonico e per l’appunto equilibrato. È uno sporco lavoro, anzi un lavoro inquinato, ma qualcuno deve pur farlo.
Lo stesso dicasi per il problema demografico. Oggi su questo pianeta siamo in tanti (secondo worldometer in questo esatto istante siamo circa 7 miliardi e 986 milioni, il traguardo degli 8 miliardi è vicino), soprattutto se si pensa che nel 1960, più o meno quando sono nato io, eravamo meno di tre miliardi, e un secolo prima eravamo meno di 1 miliardo e 300 milioni. Il tasso di crescita è ripido e destinato a generare gravi problemi ambientali in un mondo globalizzato nel quale tutti i popoli ambiscono legittimamente a un elevato livello di confort. Sembra tuttavia che la situazione sia destinata a cambiare in tempi abbastanza rapidi: gli specialisti ci avvertono che in un momento compreso tra il 2050 e il 2080, dopo aver raggiunto il picco demografico assoluto, molte aree del pianeta nelle quali sono state messe in atto severe politiche di contenimento delle nascite (soprattutto Cina e India, ma non solo), si svuoteranno, creando molte difficoltà di mantenimento delle strutture sociali preesistenti (ad esempio il sistema pensionistico). E allora, esiste davvero una ‘soluzione’ definitiva a un problema demografico che interessa tutte quante le variabili fondamentali della nostra esistenza su questo pianeta? Sicuramente no, mentre è chiaro che il vero cimento è quello di definire il corretto punto di equilibrio, anzi i corretti punti di equilibrio, visto che si spostano continuamente nel corso del tempo. Già nel lontano 1970 L. R. Taylor, nel suo The Optimum Population for Britain, asseriva che il livello demografico ottimale per una nazione è quello in cui è possibile da un lato massimizzare alcune variabili come le potenzialità creative dei singoli individui, le prerogative più vantaggiose della struttura sociale, il conseguimento di obiettivi etici, politici ed estetici, nonché la produzione pro-capite reale, e dall’altro minimizzarne altre come l’inquinamento ambientale, l’insufficienza alimentare e le tensioni sociali. Ecco, chiunque si incarichi di definire questo livello demografico ottimale è destinato a sudare le proverbiali sette camicie, e non è detto che riesca nell’intento. Eppure la direzione è quella giusta, ovvero la definizione di un corretto punto di equilibrio tra tutti i valori in gioco.
Sembra alla nostra portata, eppure il passaggio dall’eccessivo finalismo della coscienza alla mente globale, dalla frammentazione del sé alla grazia, dal confort asintotico all’equilibrio sistemico, e in ultima analisi dal predominio del solo elementalismo alla sua integrazione con una visione relazionista, è tutt’altro che agevole. Val la pena di ripetere che l’elementalismo non è affatto un male in sé, diventa pernicioso solo quando dilaga, diviene dominante, assolutista, e ha bisogno di essere mitigato con le giuste dosi di pensiero sistemico. Quest’ultimo è un correttivo che la nostra cultura già possiede, che ha coltivato quasi di nascosto attraverso i secoli e che ora grazie all’impegno di tanti studiosi sta venendo alla luce se non della ribalta perlomeno della considerazione sociale. Al di là del successo della cibernetica o della teoria dei sistemi, persino il grande afflato religioso non confessionale che caratterizza la nostra epoca ha a che fare con questo: che altro è il tanto sbandierato ridimensionamento dell’Io se non un passaggio alla visione sistemica o, come diceva Bateson, alla prospettiva della mente globale? Rimaneggiando un po’ la magnifica esclamazione di Terenzio, potremmo dire: homo sum, humani aut non humani nihil a me alienum puto. Già il grande commediografo romano sapeva che il punto di vista relazionale-sistemico è perfettamente umano e conveniente, solo che è scomodo.