IL CERVELLO POLITICO
Osho Rajneesh diceva che ci sono fondamentalmente tre modi per rovinarsi la vita: il gioco, il sesso e la politica. Il gioco è il modo più divertente, il sesso il più emozionante, la politica… il più sicuro. Questo libro di Matt Qvortrup ci spiega perché le cose stanno così e cosa possiamo fare per cambiarle, ovvero per occuparci serenamente di politica senza necessariamente rovinarci la vita.
Massimo Morelli
Matt Qvortrup è un politologo danese noto per essere uno dei massimi esperti mondiali in tema di referendum, per aver scritto una bella biografia su Angela Merkel e infine per essere un fautore della cosiddetta ‘neuropolitica’. Su quest’ultimo tema ha recentemente scritto un agile libretto intitolato The Political Brain, nel quale perora la causa dell’adozione delle conoscenze neuroscientifiche in ambito politico. Non è un libro per addetti ai lavori, è un libro di divulgazione, ma ben documentato e in alcuni casi anche convincente. Partiamo appunto delle argomentazioni convincenti, come si fa in tutte le famiglie per bene, e lasciamo quelle zoppicanti per ultime.
Passione politica, ribellismo e nascita dei regimi dispotici
Un tema ben sviluppato, a mio giudizio, è quello relativo ai correlati neurologici della passione politica. La ricerca è interessante, i risultati in certa misura preoccupanti. Alcuni ricercatori, tra cui le italiane Marta Gozzi e Giovanna Zamboni (Marta Gozzi, Giovanna Zamboni, Frank Krueger, Jordan Grafman, “Interest in Neuropolitics Modulates Neural Activity in the Amygdala and Ventral Striatum”, Human Brain Mapping 31, n. 11 (2010): 1763-1771), si sono chiesti che cosa contraddistingue, in termini di attivazione neuronale, le persone animate da forte passione politica rispetto alle altre. In sintesi, il risultato principale è che chi si interessa attivamente di politica tende a manifestare una forte attivazione dell’amigdala e dello striato ventrale (in particolare il cosiddetto putamen). Come sappiamo, l’amigdala è una struttura limbica antica particolarmente importante nei sistemi emotivi della rabbia e della paura, ed è quindi decisiva nel determinare le risposte comportamentali di attacco e di fuga. Lo striato ventrale, che appartiene ai nuclei della base, è invece coinvolto nel sistema dopaminico della ricompensa (reward o seeking system), che tuttavia è molto attivo nelle dinamiche relative alle dipendenze e ai comportamenti compulsivi. Curioso no? Incitiamo sempre le persone a partecipare attivamente alla vita politica, e anzi riteniamo giustamente che questo sia un ingrediente fondamentale della democrazia, ma poi scopriamo che chi lo fa si distingue per maggiore aggressività e tendenza ai comportamenti ossessivo-compulsivi. Un caveat doveroso è che qui a essere indagati non sono tanto i professionisti della politica (parlamentari, dirigenti di partito, amministratori pubblici, eccetera), quanto quelli che potremmo definire gli ‘attivisti’ della politica, gli appassionati, quelli che scendono in piazza; anche se è poi vero che molti quadri dirigenti dei partiti provengono proprio da questa base di attivismo civico. Si tratta, com’è ovvio, di generalizzazioni, ma ciò non toglie che siano significative. Facendo riferimento al titolo del libro di Qvortrup, potremmo dire che proprio the political brain, il cervello di chi si impegna nell’agone politico, è all’origine di tante difficoltà che esperiamo ogni giorno nelle nostre faticose democrazie.
Qvortrup ricorda giustamente una ricerca eseguita negli anni ’60 dai sociologi Almond e Verba (Gabriel A. Almond e e Sidney Verba, The Civic Culture: Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton, NJ: Princeton University Press, 2015). Sulla base di una serie di interviste con degli elettori, i due studiosi giunsero alla conclusione che i sistemi politici funzionano meglio quando i soggetti che ne fanno parte non sono costantemente impegnati nell’attività politica. Una sana cultura civica prevede che in situazioni normali i cittadini non facciano uso delle loro ‘riserve civiche’ (impegno attivo, capacità di mobilitazione, eccetera), ma che vi facciano ricorso solo in situazioni di emergenza, quando le cose cominciano a mettersi davvero male. Paradossale, ma ci sta. Teniamolo presente.
La rabbia, espressa o soltanto allevata in pectore, è una grande protagonista della vita politica. Qvortrup ci ricorda che già Platone nella Repubblica aveva spiegato da par suo quale sia la dinamica di sviluppo dei regimi dispotici. In democrazia accade spesso che larghe fasce della popolazione comincino a sentirsi, giustamente o ingiustamente, ‘lasciate indietro’, non sufficientemente considerate da chi esercita il potere decisionale. Costoro lamentano di non riuscire a ottenere il dovuto rispetto e questo genera l’insorgere di sentimenti rabbiosi, che a lungo andare finiscono col prevalere sulla disamina razionale delle situazioni. In questo clima emotivo turbato non è raro che un particolare individuo dotato di grandi capacità persuasive si proponga come rappresentante, ma potremmo anche dire ‘vendicatore’, di tutti gli insoddisfatti, promettendo loro di sanare le vere o presunte ingiustizie e restituire i privilegi perduti. Ma it’s just an illusion, perché questo demagogo, una volta giunto al potere sfruttando le insoddisfazioni del popolo, instaurerà un regime fortemente autoritario e invece di riscattare i suoi sostenitori finirà per assoggettarli completamente al proprio volere.
Ci ricorda qualcosa? È cambiato poi molto dai tempi di Platone? Forse qualcosa è addirittura peggiorato perché la nostra società è fondata anche più di quelle antiche sui valori della competizione anziché su quelli della solidarietà di gruppo, e quando c’è competizione, si sa, i galli a cantare sono pochi e tutti gli altri ‘restano indietro’ covando il malcontento. A tale proposito il maestro Zen Kōdō Sawaki, molto critico sull’ipercompetitività che contraddistingue la società giapponese contemporanea in ambito sia professionale che sportivo, era solito dire: “Non siamo gattini, perché dovremmo saltare? Non siamo struzzi, perché dovremmo correre?”.
Detto ciò, la cosa interessante è che gli esiti delle ricerche neuropolitiche confermano in pieno queste dinamiche della vita politica dimostrando che proprio l’amigdala e altre componenti dei sistemi emotivi della rabbia e della paura sono particolarmente attivi nel sistema nervoso centrale degli elettori populisti. Per converso tra questi soggetti inclini al rancore e al ribellismo appare meno attiva la corteccia prefrontale dorsolaterale, di solito coinvolta nelle attività di pianificazione, valutazione e disamina razionale delle situazioni.
Dicotomia amico-nemico e ascolto deliberativo
Un altro tema ben sviluppato nel libro di Qvortrup è quello delle modalità di rapporto tipiche dell’interazione politica. Come sappiamo, il dibattito politico delle nostre società contemporanee è fondato in modo quasi ossessivo sulla dinamica noi-loro, amico-nemico. Sembra quasi non potersi dare altra modalità, e chi prova ad imboccare altre strade più solidaristiche viene immediatamente accusato di stoltezza e naïveté, o mancanza di real politik. Dal punto di vista neurologico questo tipo di interazione tende ad attivare i sistemi emotivi della rabbia e della paura (con la fatidica amigdala) di cui abbiamo già parlato, a inibire la disamina razionale prodotta dalla corteccia laterale prefrontale e, last but not least, a ridurre la capacità empatica dei soggetti. Le tecniche di neuroimaging hanno chiarito che tra i tipici correlati neurali dell’empatia vi sono una pronunciata attività della corteccia cingolata anteriore e dell’insula anteriore, entrambe appartenenti alla cosiddetta pain matrix, coinvolta nella percezione del dolore proprio e altrui. Inoltre, il sentimento dell’empatia attiva il sistema dei neuroni a specchio, presenti soprattutto (ma non solo) nella corteccia premotoria e nel lobo parietale.
Il problema è che, come anche gli etologi sanno benissimo, l’empatia tende ad attivarsi nei confronti dei membri dello stesso gruppo sociale ed è invece fortemente inibita nei confronti dei membri di altri gruppi sociali, gli estranei, i forestieri, gli stranieri, ed è proprio per questo che in una dinamica politica dominata dal pattern relazionale amico-nemico resta ben poco spazio per i sentimenti empatici.
Come nota Qvortrup, le nostre società avrebbero bisogno dell’esatto opposto di tutto ciò, ovvero del cosiddetto ‘ascolto deliberativo’. Non dobbiamo idealizzare troppo il sistema politico ateniese, che sapeva essere terribile (chiedere in proposito agli abitanti dell’isola di Melo), ma che successivamente alla riforma di Clistene si era dotato della Boulè, un’assemblea composta da 50 cittadini scelti per sorteggio all’interno di ognuna delle 10 tribù di Atene, per un totale di 500 rappresentanti complessivi. Pur non esente da conflitti e contrapposizioni partigiane, la Boulè era per l’appunto il luogo in cui i cittadini potevano ascoltarsi vicendevolmente, soppesare i pro e i contro di ogni opzione possibile e infine deliberare, ovvero prendere la decisione più appropriata. Il verbo greco antico βουλεύω significa per l’appunto soppesare, deliberare, consigliare, discutere e prendere decisioni. Oggi i nostri parlamenti si ispirano ancora ai principi fondativi della Boulè ateniese? Non sembra, dacché la quasi totalità delle interlocuzioni appare viziata da posizioni pregiudiziali e dalla logica dello scontro amico-nemico. Assai raramente accade che un politico contemporaneo faccia sfoggio di autentico ascolto deliberativo, e le poche volte in cui ciò accade viene subito avviata la reprimenda del soggetto che ha osato sottrarsi alla logica dello scontro purché sia.
“È l’ascolto a essere realmente importante qui. Abbiamo un cervello democratico proprio perché la democrazia si fonda sul βουλεύω, o come potremmo tradurre qui, sull’ascolto deliberativo. Abbiamo la capacità di ascoltare e imparare. Non siamo come gli animali, come gli uccelli e le api. Le nostro decisioni vengono prese, o dovrebbero essere prese, dopo aver attentamente soppesato i fatti, i pro e i contro, ovvero dopo una seria discussione.”
Tutto chiaro. In risposta alla provocazione di Osho, abbiamo finalmente capito come fare per occuparci di politica senza rovinarci la vita. Quando avremo il coraggio di reintrodurre il vero, autentico e non simulato, ascolto deliberativo nella nostra prassi democratica?
Conservatori e progressisti
Ma veniamo alle argomentazioni zoppicanti, almeno a mio parere. In primo luogo mi sembra che a questo novero appartenga tutta la dissertazione relativa ai correlati neurali degli elettori conservatori e di quelli progressisti. Innanzitutto chiariamo che non abbiamo bisogno dei neuroscienziati per sapere che, in linea generale, i conservatori desiderano sicurezza, prevedibilità, autorità e ordine, mentre i progressisti pregiano l’innovazione, le sfumature dialettiche e la complessità. Fin qui dormiamo tutti sonni tranquilli, ma quando Qvortrup passa a elencare le varie ricerche sui correlati neurologici a mio giudizio fa un po’ di confusione citando tutta una pletora di sistemi neurali coinvolti nell’una o nell’altra mentalità senza fare sufficiente chiarezza. Verso la fine del libretto pubblica addirittura due tabelle riassuntive che in verità invece di dissipare i dubbi li alimentano. Ad esempio nella tabella dedicata ai liberal cita l’attivazione dell’insula, ma non in quanto motore di sentimenti empatici bensì in riferimento alle sensazioni di disgusto. Ciò è fuorviante perché diverse ricerche hanno dimostrato esattamente il contrario, ovvero una maggiore facilità o propensione al disgusto da parte dell’elettore conservatore (ad esempio Inbar, Y., Pizarro, D. A., & Bloom, P., Conservatives are more easily disgusted than liberals. Cognition and Emotion, 2009 e anche Kevin B. Smith , Douglas Oxley, Matthew V. Hibbing, John R. Alford, John R. Hibbing, Disgust Sensitivity and the Neurophysiology of Left-Right Political Orientations, Plos One, 2011). Forse è una semplice svista, che tuttavia aggiunge confusione a un quadro generale non chiarissimo.
Ho già avuto modo di scrivere su questo tema in un paper di Ferpi Lab (Massimo Morelli, Cos’è la destra, cos’è la sinistra, progressisti e conservatori secondo George Lakoff: https://cdn.ferpi.it/media/post/vuad7c7/MORELLI_2.pdf), e resto convinto che in tale ambito le osservazioni più interessanti siano state prodotte dal linguista e scienziato cognitivo George Lakoff nel suo saggio Pensiero politico e scienza della mente (Bruno Mondadori, Milano, 2009). Almeno finora.
Perché la neuropolitica?
Ma forse l’aspetto più zoppicante del libro di Qvortrup è la spiegazione del perché mai faremmo bene ad adottare gli strumenti della neuropolitica su larga scala, mentre in realtà ciò non accade o accade con grande lentezza e scarsa convinzione. Qui secondo me Qvortrup avrebbe andare più dritto al punto, invece di girare intorno agli argomenti decisivi, che già che ci siamo provo a riassumere qui in poche righe.
Siccome la politica persegue, o dovrebbe perseguire, il massimo ‘livello di benessere’ per il maggior numero di cittadini, è assolutamente fondamentale capire che cosa questi ultimi intendano per ‘benessere’, ovvero quali obiettivi vogliono che i politici si impegnino a conseguire nell’amministrazione della cosa pubblica. Oggi per capire cosa cosa vogliono i cittadini si usano delle tecniche di indagine consolidate come le interviste telefoniche o vis à vis, i focus group e altre ancora, che si basano sulle verbalizzazioni e i comportamenti degli individui (i cosiddetti ’dati espliciti’). Si tratta di strumenti sicuramente utili, ma che condividono tutti un problema di fondo: attraverso le parole e i comportamenti spesso le persone dissimulano le loro reali convinzioni. Quando sanno di essere osservate, tendono a parlare e agire diversamente da come fanno normalmente; ancora peggio, spesso le persone non sanno bene neanche loro cosa vogliono veramente e attraverso le loro parole e azioni confondono innanzitutto se stesse. Risultato: per essere realmente efficaci questi strumenti di indagine dipendono in larga misura dalla capacità dei ricercatori di analizzare i dati per trarne un quadro significativo e realistico, cosa che spesso non accade vuoi per impossibilità, vuoi per incapacità, vuoi infine per mancanza di un’autentica volontà ‘politica’ di farlo.
Con i dati neurologici (anche detti ‘dati impliciti’) le cose stanno diversamente, perché la distorsione del dato grezzo è praticamente impossibile. Posso controllare le mie parole e le mie azioni per esprimere emozioni o idee diverse da quelle che provo o penso realmente, ma non posso controllare la reazione delle mie strutture cerebrali, come l’amigdala o il nucleus accumbens o i lobi prefrontali dorsali. In altre parole, i responsi dell’elettroencefalogramma (EEG) o meglio ancora della risonanza magnetica funzionale (fMRI), non mentono, e per i ricercatori è più facile trarre conclusioni dotate di senso e almeno prossime alla realtà delle cose. In altre parole i dati impliciti sono meno soggetti a distorsioni dissimulative o grossolani errori interpretativi.
Evviva, e allora come mai sono ancora poco utilizzate? Forse perché sono più costose? No, di fatto non sono più costose: hanno bisogno di pochi soggetti, spesso nell’ordine delle poche decine, e i costi complessivi non esuberano quelli delle normali survey quali-quantitative. E allora forse non vengono impiegate perché sono metodologie manipolative e anti-etiche? Niente affatto, non sono più o meno etiche o manipolative degli strumenti del marketing tradizionale, e anzi hanno il vantaggio di essere più aderenti alla realtà e meno passibili di manipolazioni partigiane.
E allora qual è l’origine di questa ritrosia a imboccare una volta per tutte la strada della neuropolitica?
Personalmente credo che i motivi principali siano legati alla mancanza di profonda cultura scientifica in ambito politico (come peraltro in altri ambiti), alla scarsa volontà da parte dei ‘sacerdoti’ del marketing tradizionale di abbandonare le vecchie tecniche ormai consolidate per impegnarsi in un faticoso percorso di rinnovamento, e infine anche a uno strano timore-e-tremore che assale molte persone alla sola vista di una riproduzione grafica del cervello umano, quasi si trattasse di qualcosa che non li riguarda, di uno spaventoso organo alieno che volesse assoggettarli. Peccato perché invece questi strumenti offrono un grande vantaggio competitivo a chi sa come usarli: Qvortrup cita tra gli altri il caso delle elezioni messicane del 2012, vinte a mani basse da Enrique Peña Nieto e dal suo Partito Istituzionale Rivoluzionario (PRI) anche grazie all’impiego di metodologie neuropolitiche.
Sono comunque convinto che il tempo farà piazza pulita di tutti questi motivi di avversione e le neuroscienze finiranno per ricavarsi il ruolo che meritano, contribuendo a rendere la politica più credibile e autenticamente votata al benessere dei cittadini.
Tutte queste cose Matt Qvortrup qua e là le dice, ma in modo un po’ ‘annacquato’, girandoci un po’ troppo intorno. Detto questo, il suo libro resta comunque una lettura interessante e addirittura doverosa se davvero vogliamo che la politica smetta di essere, come diceva Osho, uno dei modi più sicuri per rovinarsi la vita.