DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI… INTELLIGENZA

Si sente spesso dire che l’Intelligenza Artificiale ‘non è davvero intelligente’, ma si tratta di un’asserzione controfattuale. In realtà è in atto un fraintendimento: si usa il termine ‘intelligenza’ per significare intenzionalità, soggettività, consapevolezza, coscienza, che sono concetti ben diversi.  

 

Grande è la confusione sotto il sole
– Le macchine, i computer non sono veramente intelligenti, perlomeno non come lo siamo noi…
– Ma cosa dici? Al contrario, sono intelligenti, eccome se lo sono, spesso anche più intelligenti di noi. 

– E gli animali? Gli animali non sono intelligenti come noi, loro sono dominati dagli istinti.
– Ma non è vero! I mammiferi superiori manifestano molte forme di intelligenza adattativa, simile alla nostra, in alcuni casi superiore. 

– E noi umani? Noi siamo intelligenti no? Αnzi siamo i più intelligenti di tutti, nessuno può stare al nostro pari….
-E chi l’ha detto? Innanzitutto non siamo tutti intelligenti allo stesso modo, perché l’intelligenza è distribuita in modo diseguale tra la popolazione, e in molti casi particolari veniamo surclassati sia dagli animali che dalle macchine….

Quante volte abbiamo ascoltato, o letto, discorsi come questi? È un ginepraio terribile, non se ne esce. In tema di intelligenza ognuno dice la sua, ognuno sembra pensarla in modo diverso, e soprattutto ben pochi si preoccupano di definire con qualche rigore l’oggetto del contendere, ovvero l’intelligenza stessa. Sembra che per parlare seriamente di intelligenza si debba essere molto intelligenti, e allora molti preferiscono tenersi alla larga, restare sul vago.
E invece, pur senza essere molto intelligenti, sembra venuto il momento di fare un po’ di chiarezza, di tracciare qualche confine, magari non definitivo, ma perlomeno riconoscibile e condivisibile. Come diceva Mao Tze-Tung “Grande è la confusione sotto il sole, propizio è il momento…”

Una definizione generale dell’intelligenza

Frans de Waal

Il primatologo Frans de Waal

Come vedremo esistono molte forme ‘speciali’ di intelligenza, sulle quali mi soffermerò in seguito, ma ora abbiamo bisogno di una solida definizione generale, qualcosa che ci permetta di distinguere tutti i fenomeni che etichettiamo come ‘intelligenti’ da quelli che invece restano fuori. La definizione più semplice, solida e incontrovertibile di intelligenza che ho trovato io viene da un etologo, anzi dal più celebre tra tutti gli etologi contemporanei, il recentemente scomparso Frans de Waal. Che in questo caso siano gli etologi a offrirci una semplice e utile definizione di intelligenza, in fondo non sorprende perché proprio gli etologi si trovano sempre a fronteggiare il problema di distinguere i comportamenti ‘istintivi’ da quelli intelligenti. Devono arginare il potere infestante del concetto di ‘istinto’, che come diceva Bateson spiega sempre molto poco, e per riuscirci devono definire con precisione il fenomeno dell’intelligenza e mostrarla in azione, al posto dell’istinto, nel regno animale.
Come suo costume, De Waal va dritto al sodo. Secondo lui, perché vi sia cognizione, e quindi intelligenza, è necessario che vi siano un ‘input sensoriale’, ovvero un sistema di ricezione delle informazioni, un processo di elaborazione di tali informazioni e la loro trasformazione in conoscenza, nonché, infine, l’applicazione flessibile di tale conoscenza per raggiungere uno scopo, di solito relativo alla sopravvivenza e al benessere del soggetto.
Riassumendo: ricezione delle informazioni utili, loro elaborazione e trasformazione in conoscenza, e infine applicazione flessibile della conoscenza per il conseguimento di uno scopo utile alla sopravvivenza o al benessere. Tutto qui.
Dopo di che de Waal precisa che quando l’attenzione è rivolta principalmente ai processi di ricezione ed elaborazione delle informazioni si tende a parlare di ‘cognizione’, mentre quando è rivolta all’impiego flessibile della conoscenza per conseguire degli scopi si parla preferibilmente di ‘intelligenza’. Ciò non toglie che si tratti di due fenomeni quasi inscindibili, le fatidiche due facce della stessa medaglia che per comodità possiamo raccogliere entrambe sotto la voce generale ‘intelligenza’, e non pensarci più.

Fermi tutti, può esclamare qualcuno… manca ancora qualcosa, dobbiamo definire chiaramente cosa sia l’informazione! Giusto, e tutto sommato possiamo farlo senza scomodare le equazioni di Shannon e Weaver. Nel suo Mente e Natura [Gregory Bateson, Mente e Natura: un’Unità Necessaria, Milano, Adelphi, 1993], il maestro del pensiero sistemico Gregory Bateson ha definito molto semplicemente l’informazione come ‘notizia di una differenza’. Secondo Bateson nel mondo fisico  (lasciamo stare per il momento la fisica quantistica, limitiamoci alla classica) l’interazione tra le parti consiste in una semplice relazione causale in cui una parte del sistema esercita una forza sull’altra parte. È il modello delle palle da biliardo, in cui semplicemente una parte agisce su un’altra, da cui peraltro origina tutta la nostra morbosa ossessione per i rapporti di causa ed effetto. Nel processo mentale, invece, le cose sono diverse perché i termini necessari ad attivare l’interazione sono almeno tre. Vi è interazione solo quando un componente del sistema reagisce alla relazione tra due altri componenti: la parte che reagisce è detta ‘ricevente’, mentre la relazione che provoca la risposta del ricevente è la ‘differenza’. Questa differenza è l’unità elementare, senza la quale non può esservi processo mentale, e che comunemente viene chiamata ‘informazione’. Tra l’altro questo è il tipico processo della percezione sensoriale, in cui l’organo di senso viene attivato non da una cosa, un oggetto, ma da un evento, intendendo per evento un cambiamento di stato o, per l’appunto, una differenza. Vogliamo un esempio paradigmatico di differenza che diventa informazione? La differenza tra 0 e 1: ci dice qualcosa?[nota: per indicare una situazione di grande confusione concettuale, Hegel era solito dire “è la notte in cui tutte le vacche sono nere”, che è appunto una situazione in cui mancano le differenze e quindi non si dà informazione].
Riassumendo ancora, appare tutto molto semplice: l’intelligenza sarebbe un processo di ricezione delle informazioni – intese come notizie di differenze – e loro trasformazione in conoscenza del mondo applicabile flessibilmente per il raggiungimento di determinati scopi.

Notiamo subito che questa definizione di comportamento intelligente comprende sia comportamenti tipicamente umani, sia comportamenti animali, sia comportamenti eseguiti da sistemi artificiali come quelli AI. Sul comportamento umano non mi sembra il caso di soffermarmi, sappiamo tutti di cosa stiamo parlando, per quello animale rimando alle centinaia di esempi forniti da Frans de Waal nel suo saggio Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali? [Raffaello Cortina Editore, Milano, 2016], mentre per i sistemi artificiali mi limito a osservare che, senza scomodare i tanto decantati Large Language Model, se una macchina è in grado di rilevare le informazioni contenute in un vetrino istologico, elaborarle e trasformarle in conoscenza cumulativa, che progredisce col passare del tempo, e di suggerire con grande precisione a un anatomo-patologo l’occorrenza di un determinato segnale patologico, beh, è difficile affermare che tutto questo non ricada nella definizione di intelligenza testé fornita.
Siccome tuttavia molti esperti assai più preparati di me sostengono che i sistemi artificiali non sono intelligenti, io sospetto che qui vi sia un fraintendimento lessicale relativo al fatto che nel linguaggio ordinario usiamo il termine ‘intelligenza’ per indicare qualcosa di diverso da ciò che abbiamo testé provveduto a definire. Ma ci torno alla fine.

Gregory Batesn gioca con un cane

Gregory Bateson

Intelligenza come apprendimento
Come accennato in precedenza esistono diverse forme ‘speciali’ di intelligenza, tante quante sono le occasioni in cui esclamiamo con entusiasmo che quella persona, animale o macchina è ‘intelligente’. Queste forme speciali sono molte e io non sono in grado di esaminarle né tutte né la maggior parte. Mi limito a citare quelle che mi sembrano, dal fondo del mio pozzo, le più rilevanti.
La prima e più ovvia forma di intelligenza ‘speciale’ cui mi pare doveroso fare accenno è l’apprendimento. Dopo tutto giudichiamo spesso l’intelligenza degli esseri sulla base della loro capacità di apprendere dall’esperienza. Se non cambi le tue modalità di risposta ai diversi stimoli forniti di volta in volta dall’ambiente, se non sei flessibile, duttile, allora sei o un uomo stupido, o un animale ‘inferiore’ dominato dagli istinti, oppure un automa nel senso deteriore del termine, un mero meccanismo che ripete le medesime azioni all’infinito.

Il Perceptron Mark 1

Il Perceptron Mark 1

Al di là dei pur importantissimi modelli del condizionamento classico pavloviano (il famoso cane salivatore) e dell’evitamento strumentale (i poveri topi sottoposti all’elettroschock dentro la Skinner-box), la disciplina che ha rivelato il segreto ultimo di ogni processo di apprendimento è la cibernetica, secondo la quale, come sappiamo, tale segreto risiede nel sistema circolare retroattivo, anche detto ‘a feedback’. Non entro qui nei dettagli di tale sistema, mi limito a notare che la prima rete neurale in assoluto, il celebre Perceptron di Frank Rosenblatt, fu realizzata proprio allo scopo di generare un sistema digitale capace di autocorreggersi, e per conseguire questo obiettivo fece ricorso alla backpropagation (in italiano ‘retropropagazione’ o ‘discesa del gradiente’) che è per l’appunto una forma di sistema retroattivo cibernetico. Se quindi l’intelligenza speciale che consideriamo è quella legata alle capacità di apprendimento, le macchine sicuramente manifestano questa forma di intelligenza e lo stesso dicasi per molti animali le cui gesta spesso sorprendenti in questo ambito sono descritte da una sterminata letteratura etologica. E gli uomini sono capaci di apprendere dall’esperienza? Non tutti e non sempre, ma questa è un’altra storia.        

Intelligenza come dialettica
Spesso giudichiamo l’intelligenza delle persone dalla loro abilità nella conversazione, che definiamo ‘abilità dialettica’, e non c’è dubbio che uno dei grandi motivi di stupore provocato dall’AI generativa risieda proprio nella qualità della conversazione che le chat relative a questi modelli riescono a sostenere. Il celebre test di Turing è incentrato su questo tipo di intelligenza speciale: se nell’interazione linguistica con un interlocutore ignoto, penso di aver a che fare con un umano e invece ho a che fare con una macchina, in quel caso la macchina stessa ha superato il test.

Ritratto di Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Nel linguaggio comune l’abilità dialettica resta un concetto abbastanza vago, larvale, e neppure l’etimologia riesce ad aiutarci granché. Più interessante è invece il concetto filosofico, che in Occidente esordisce con Eraclito, ma è reso celebre dagli idealisti tedeschi (Hegel ne fece il suo cavallo di battaglia) e da Marx. Secondo cotanti filosofi la dialettica è l’architettura intima del pensiero (e quindi della realtà: ciò che è razionale è reale), il quale si muove in perenne e febbricitante oscillazione tra concetti antinomici che richiedono una qualche forma di conciliazione. In verità questo modo di pensare ha anche un fondamento biologico, perché ogni organismo si trova sempre e comunque obbligato a confrontarsi con il binomio fondamentale sopravvivenza / annientamento, che può essere semplificato in bene / male o buono /cattivo, e che costituisce la prima e più importante tra tutte le antinomie, quella da cui tutte le altre in qualche modo derivano.
La dialettica antinomica ha alcune caratteristiche peculiari che la rendono una forma di intelligenza molto speciale, diversa dalle altre. Innanzitutto, a differenza del pensiero causale che tende a procedere per catene lineari, la dialettica ha una natura circolare motivata appunto dalla necessità di peregrinare incessantemente da un opposto all’altro. David Harvey, uno dei più eruditi interpreti del pensiero di Karl Marx, notava che questa forma di ragionamento è particolarmente amata dai bambini, cui il ragionamento logico lineare risulta ancora ostico. Ad esso preferiscono di gran lunga il carattere giocoso dell’eterno rimbalzare tra caratteristiche antitetiche della realtà e del linguaggio. Personalmente mi permetto di aggiungere che anche nella conversazione tra adulti, il pensiero schiettamente logico è abbastanza infrequente e rimpiazzato dal gioco dialettico; molto spesso ognuno degli individui dialoganti assume le parti di uno dei termini antinomici e si confronta ‘dialetticamente’ con l’altro, anche se spesso senza conseguire esiti rilevanti.
Un’altra caratteristica notevole della dialettica, rilevata già da Eraclito col suo concetto di enantiodromia, e che peraltro è uno dei principi cardine dal pensiero cinese antico, è che ogni termine antinomico, quando viene portato alle estreme conseguenze, finisce inevitabilmente per rovesciarsi nel suo opposto.  È un concetto popolare anche tra gli operatori di borsa, che magari non lo sanno, ma tendono a interpretare la realtà dei mercati in modo dialettico, e quindi hegeliano o marxista (o cinese antico).

Tornando al pensiero cinese antico, va detto che il procedere dialettico è il suo vero tratto distintivo. Mentre noi tendiamo a leggere le trasformazioni nei termini del rapporto causa-effetto, gli antichi abitanti del Regno di Mezzo si concentravano sui fenomeni dell’alternanza e dell’interdipendenza. A questo proposito il grande studioso del pensiero cinese Granet notava che “invece di constatare successioni di fenomeni, i Cinesi registrano alternanze di aspetti. Se due aspetti appaiono loro legati, non è alla maniera di una causa e di un effetto: essi sembrano loro accoppiati come lo sono il diritto e il rovescio o, per utilizzare una metafora consacrata sin dai tempi dello Hi- tseu, come l’eco e il suono, o anche l’ombra e la luce. La convinzione che il Tutto e ciascuna delle totalità che lo compongono hanno una natura ciclica e si risolvono in alternanze, domina talmente il pensiero che l’idea di successione è sempre dominata da quella di interdipendenza”.
Quel che conta non è il rapporto di successione, e tantomeno di causa ed effetto, quanto la concordanza e il convergere dei segni rivelatori di un certo ordine universale, che si manifesta dialetticamente. Risparmio qui ulteriori approfondimenti sui concetti di Yin e Yang, spesso citati a sproprosito e molto più sottili di quanto la vulgata non lasci intendere.

Un’altra caratteristica decisiva della dialettica è che essa si presta molto bene ad affrontare i cosiddetti problemi a valori multipli, ovvero quei problemi, tipici ad esempio della prassi politica, in cui se valorizzi una delle variabili in gioco rischi seriamente di s-valorizzarne un’altra o molte altre. Per fare un semplice esempio, un’economia caatterizzata da piena occupazione (tutti i cittadini hanno un lavoro) tende a generare un aumento eccessivo dell’inflazione (massa monetaria e quindi prezzi al consumo) e per questo gli economisti tendono a pensare che un modesto livello di disoccupazione (intorno al 3%) sia perferibile alla piena occupazione perché non genera livelli di inflazione eccessivi e inoltre è possibile porvi rimedio con le giuste politiche di assistenza sociale. 
Di fatto, più i problemi sono importanti e più i valori in gioco sono molteplici e intercorrelati. Le grandi questioni politico-economiche sono tutte a valori multipli e per affrontarle servono molte competenze e grande capacità di composizione degli interessi in gioco.
Il punto è che nessun problema a valori multipli ha un’unica vera soluzione, una spada affilata che tagli di netto il nodo gordiano. Si possono trovare ‘soluzioni’ alle difficoltà individuali o dei piccoli gruppi, non ai grandi problemi di interesse collettivo che richiedono invece la definizione di uno o più punti di composizione antinomica. Per affrontare questi grandi problemi collettivi non basta il solo pensiero logico, serve anche una capacità dialettica in grado di identificare i possibili e più giovevoli punti di equilibrio tra i diversi valori in competizione.
Insomma, piaccia o non piaccia la dialettica è una forma di intelligenza speciale particolarmente importante. Persino molti  animali la manifestano con gli strumenti della comunicazione pre-verbale, e quanto alle macchine si è già detto che i modelli linguistici generativi hanno dimostrato, anche a sorpresa, di poter essere straordinariamente dialettici.

Scimpanzè triste con la testa appoggiata sulla spalla di un uomo

Scimpanzè triste

Intelligenza affettiva
Un’altra forma molto importante di intelligenza speciale è quella legata alle emozioni e agli affetti. Qualcuno potrebbe obiettare: che c’entrano gli affetti con l’intelligenza, sono cose diverse… In realtà non è così, perché, anzi, quella legata agli affetti è la prima forma di intelligenza che interviene in reazione alle sollecitazioni dell’ambiente, e che spesso ci consente di sopravvivere. Ritorniamo un attimo alla definizione generale di intelligenza: serve la capacità di reperire le informazioni, ad esempio attraverso i sensi, di elaborarle e infine di trasformarle in conoscenza flessibile utile al conseguimento di obiettivi utili alla sopravvivenza e al benessere. Ebbene, i nostri sistemi affettivi fanno esattamente questo. Vediamo meglio.
Qualche anno fa era molto in voga la cosiddetta ‘intelligenza emotiva’, resa popolare dal successo del libro di Daniel Goleman, ma qui non faccio tanto riferimento a quel tipo di letteratura, quanto piuttosto a ciò che le sta dietro, ovvero il progresso delle vere e proprie ‘neuroscienze affettive’, reso possibile da studiosi come Moruzzi, MacLean, Olds, Damasio e soprattutto Jaak Panksepp.
Grazie al perfezionamento delle sofisticate tecnologie di neuroimaging, e in particolare della risonanza magnetica (fMRI) ad alta definizione, Panksepp e i suoi collaboratori hanno addotto numerose evidenze sperimentali in favore dell’esistenza di alcuni sistemi affettivi di base (per Panksepp sono sette: ricerca, rabbia, paura e ansia, sessualità, cura e amorevoleza, tristezza e panico, gioco) che tutti i mammiferi superiori, compreso l’uomo, ereditano per via genetica e si ritrovano inscritti nel loro corredo comportamentale sin dalla nascita. In pratica si tratta delle prime e più fondamentali risposte agli stimoli sia ambientali sia interni che offrono un qualche vantaggio in termini di sopravvivenza. Se vengo frustrato nel conseguimento dei miei obiettivi biologicamente o socialmente rilevanti, è spesso utile che si attivi il sistema della RABBIA/IRA che mi consente di mobilitare tutte le risorse disponibili in vista di una risposta di attacco; se al contrario di fronte a un pericolo soverchiante è preferibile che mi dia alla fuga, allora è importante che si attivi subito il sistema della PAURA. Se invece devo procurarmi del cibo o trovare una qualche soluzione a problemi che minacciano la mia sopravvivenza, è importante che si attivi il sistema dopaminico della RICERCA che mi stimola a esplorare l’ambiente alla ricerca di soluzioni sostenibili. E così via. In seguito a questo primo livello emotivo, comunemente definito ‘primario’, lo sviluppo evolutivo ha via via aggiunto i livelli secondario (memoria, apprendimento) e terziario (sistemi cognitivi neocorticali), che permettono di modulare più finemente le risposte adatttive, ma resta il fatto che il drive affettivo è tuttora il primo e più radicale strumento a nostra disposizione per garantirci delle buone probabilità di sopravvivenza. Secondo questa prospettiva, il nostro sistema nervoso si fonda principalmente su questi sistemi profondi, ereditati, automatici e, va detto, spesso in conflitto gli uni con gli altri.
Occorre sottolineare il concetto fondamentale: i nuclei affettivi sono più profondi e quindi più antichi di quelli corticali che rendono possibile il cosiddetto pensiero razionale, il che significa che in un passato più o meno remoto noi siamo stati principalmente degli esseri emotivo/affettivi, che si giocavano le proprie chance di sopravvivenza facendo leva sulle risposte offerte da quei sistemi neurologici profondi. La ragione calcolante era ancora di là da venire.
E non ci illudiamo che oggi l’intelligenza emotivo/affettiva sia stata del tutto soppiantata dalle elaborazioni corticali: gli studi degli psicoterapeuti abbondano di persone traumatizzate cui per un motivo o per l’altro fa difetto la regolazione emotiva, il corretto funzionamento dei sistemi affettivi profondi.
Siamo quindi in presenza di una forma di intelligenza speciale importantissima e che sarebbe incauto sottovalutare. Noi e gli altri animali, soprattutto i mammiferi superiori ma non solo, condividiamo questa croce e delizia, mentre per le macchine è un discorso ancora tutto da sviluppare (o non sviluppare). La Rachel Nexus 6 di Blade Runner e il bimbo-automa abbandonato dalla madre dell’AI di Spielberg hanno cominciato a tratteggiare il problema che attende di essere affrontato nei prossimi decenni.

Napoleone Bonaparte

Napoleone Bonaparte

Intelligenza euristica o intuitiva
Napoleone diceva che un generale non è veramente bravo quando sconfigge il nemico avendo a disposizione tutte le informazioni indispensabili su di esso: i suoi spostamenti, i suoi sistemi d’arma, le sue intenzioni, eccetera. Così sono capaci tutti. No, il bravo generale è quello che riesce a sconfiggere l’avversario pur avendo informazioni lacunose su di esso…
Su questo tema del rapporto tra l’intelligenza intuitiva e quella calcolante/statistica gli psicologi cognitivi si sono veramente sbizzarriti. Il più celebre tra essi, il recentemente scomparso Daniel Kahneman, distingueva tra pensieri veloci (intuitivo/euristici) e pensieri lenti (logico/statistici), manifestando, al contrario di Napoleone, una netta preferenza per questi ultimi. Secondo lui e il suo collega Tverski, quando dobbiamo prendere delle decisioni, facciamo molta fatica a usare in modo appropriato lo strumento concettuale più potente a nostra disposizione, ovvero il pensiero logico-statistico, che offre molte garanzie ma viene percepito come lento e faticoso. Al suo posto tendiamo invece a impiegare delle scorciatoie concettuali che Kahneman e Tverski chiamano ‘schemi euristici‘, i quali pur essendo certamente più rapidi, contengono dei bias cognitivi che introducono forti distorsioni e ci inducono in errore. Per chiarezza, cito alcuni tra i più importanti di questi schemi euristici:

  •  rappresentatività (framing): è il continuo ricorso agli  stereotipi. La presenza di uno schema interpretativo già strutturato nella mente del soggetto oscura la visione neutra di una specifica situazione, condizionando le decisioni. Se c’è uno stereotipo a disposizione, questo tende a prevalere;
  • disponibilità mnemonica: tendiamo a privilegiare le prime cose che ci vengono in mente;
  • simulazione controfattuale: e se invece fosse andata così?… Tendiamo sempre a immaginare come si sarebbero potuti verificare risultati diversi da quelli che si sono effettivamente verificati. Questo schema accentua le reazioni emotive positive e negative: se immaginiamo esiti più positivi si avrà un peggioramento dello stato emotivo, se invece ne immaginiamo di più negativi noteremo un miglioramento dello stato emotivo;
  • ancoraggio o dipendenza dai valori di partenza: la mente umana, quando deve fare una stima di tipo numerico su un problema che non conosce bene, si aggrappa al primo riferimento numerico disponibile. È il motivo per cui di solito il primo soggetto che interviene in una trattativa commerciale ha un vantaggio: può definire l’ancoraggio;
  • wishful thinking: tendiamo a preferire soluzioni che desideriamo si verifichino, che ci darebbero maggiore soddisfazione;
  • zona cieca (blind spot): è lo schema euristico fondamentale: ognuno si crede più obiettivo degli altri, meno soggetto a distorsioni derivanti dalla propria personale visione del mondo. Spendiamo troppa energia per proteggere il nostro ego e non ce ne rimane per accorgerci dei nostri errori percettivi.
Gerd Gigerenzer

Gerd Gigerenzer

Non tutti, in verità, la pensano come Kahneman e Tverski. Secondo lo psicologo tedesco Gerd Gigerenzer, autore di alcuni best seller sull’argomento, l’intelligenza euristico-intuitiva è spesso più accurata ed efficace della pura razionalità in situazioni di incertezza e complessità del mondo reale. Insomma, Gigerenzer la pensa un po’ come Napoleone.
Le euristiche ci permettono di prendere decisioni veloci utilizzando poche informazioni rilevanti, risparmiando tempo ed energie mentali rispetto a calcoli più complessi. Secondo Gigerenzer, nelle situazioni tipiche della vita reale in cui abbiamo accesso limitato alle informazioni, le euristiche possono essere più affidabili dei modelli normativi di decisione razionale che richiedono una notevole mole di dati. Inoltre, Gigerenzer sostiene che le euristiche ci vengono ‘fornite’ in modo innato o apprese dall’esperienza e dall’evoluzione culturale, e spesso funzionano meglio dei modelli razionali perché si sono adattate nel tempo all’ambiente in cui viviamo.
Non sono in grado di dire chi abbia ragione tra Kahneman e Gigerenzer: sarei tentato di optare per una posizione salomonica, ma sarebbe troppo comodo. La verità è che non ne so abbastanza.
Quel che invece è certo è che su questo tipo di intelligenza speciale la nostra triade si divide nettamente: mentre gli uomini e altri animali fanno un uso estensivo delle euristiche, i sistemi artificiali no (a meno che non le programmiamo perché lo facciano) e qui vi è davvero una separazione netta. Gli algoritmi hanno bisogno di un contesto operativo (un ‘mondo’) relativamente stabile e di ingenti quantità di dati: in tali condizioni danno il meglio di loro stessi e surclassano l’intelligenza biologica. Nel caso di contesti instabili e di lacunosità informativa, invece, l’intelligenza biologica è abituata a utilizzare un intero arsenale di scorciatoie euristiche. Se questo sia un bene o un male, ripeto, io non so dire e mi sorge il dubbio che in questi termini si tratti di un quesito mal posto.

Leibniz

Leibniz

Intelligenza logico-statistica
Questa forma di intelligenza speciale, incentrata sulle capacità inferenziali della logica e della matematica è quella che ha fatto i progressi più impressionanti in ambito non-biologico, nel regno del silicio anziché del carbonio.
Quello della macchina in grado di riprodurre le facoltà raziocinanti dell’uomo è un sogno che risale almeno sino al Seicento, allorché sia Leibniz sia lo stesso Cartesio progettarono la realizzazione di una ‘macchina simbolica’ che permettesse di combinare i concetti così come la grammatica e la sintassi consentono di combinare correttamente le parole. Da questa macchina simbolica, che Leibniz chiama ‘characteristica universalis’ e Cartesio ‘ars generalis’, discendono per inferenza tutte le possibili nozioni disponibili alla conoscenza umana.
Qui voglio brevemente soffermarmi su due aspetti. Innanzitutto questo incredibile percorso che dalla characteristica universalis di Leibniz ci ha portato all’intelligenza artificiale generativa è stata resa possibile dagli straordinari progressi della scienza matematica. Così come la fisica quantistica è difficilmente concepibile per la mente umana biologica, mentre è correttamente descritta dalle equazioni di Schrödinger e di Dirac, allo stesso modo i modelli generativi pervengono ai loro stupefacenti risultati trasformando parole e immagini in vettori matematici all’interno di spazi caratterizzati da migliaia o decine di migliaia di dimensioni… La nostra mente non è in grado di prefigurarsi contesti siffatti, mentre il mezzo matematico si trova a suo agio. E i sistemi artificiali pure.
Il secondo punto da sottolineare è che in questo ambito matematico-statistico i sistemi artificiali hanno un enorme vantaggio prestazionale. La fisica sta tutta dalla loro parte: in breve, il neurone può ‘sparare’ circa 200 volte/sec (200 HZ), mentre per i computer si parla di GigaHertz, ovvero di miliardi di Hertz al secondo; il segnale elettrico percorre l’assone a 100 m/sec, mentre i segnali dei sistemi digitali raggiungono velocità immensamente superiori; infine il cervello biologico ha dimensioni limitate e finite (possono variare solo lentissimamente nella scala temporale dell’evoluzione biologica), un supercalcolatore no, in teoria non ha limiti.
Da tutto ciò appare chiaro il notevole vantaggio che ha l’intelligenza artificiale su quella biologica in questo ambito (sottolineo ‘in questo ambito’). Non c’è partita.

Vittorio Gallese

Vittorio Gallese

Intelligenza incarnata
In realtà quest’ultima non è esattamente una forma di intelligenza speciale, quanto un aspetto fondamentale che sottende a ogni tipo di intelligenza. Che lo vogliamo o no, tutte le intelligenze sono ‘incarnate’, hanno origine dal corpo. Oggi sappiamo che tutti i nostri costrutti concettuali hanno un’origine metaforica, anche quelli scientifici e matematici [George Lakoff ha scritto un libro intitolato Where Mathematics come from. How the Embodied Mind brings Mathematics into Being], e a loro volta le metafore hanno tutte origine dalle nostre esperienze corporee.
Il neuroscienziato italiano Vittorio Gallese ha lavorato molto sul tema della embodied simulation, la simulazione incarnata. Semplificando molto, secondo questa teoria quando quando vediamo, sentiamo o pensiamo a qualcosa, il nostro cervello si comporta mimeticamente come se stessimo compiendo quell’azione o vivendo quell’esperienza, e questo accade perché i circuiti neurali che utilizziamo per percepire e agire sul mondo sono in parte gli stessi che utilizziamo per immaginare e pensare a quelle stesse azioni. Se qualcuno viene da me e mi dice: “Ho visto Franco entrare nel bar sotto casa tua”, il mio cervello simula interiormente quello scenario, un po’ come in un film. Ma a fondamento di tutto c’è sempre il mio bagaglio di esperienze corporee pregresse che mi consente di inscenare la rappresentazione interiore e avviare tutti i processi cognitivi collegati. Insomma l’intelligenza, ogni forma di intelligenza, è sempre embodied, è radicata nel corpo, almeno nel nostro mondo sublunare.

E allora?
Al termine di questa breve disamina appare chiaro che l’intelligenza così come l’abbiamo definita in termini generali all’inizio, non è prerogativa degli uomini, ma esiste su questo pianeta in molte altre forme e modalità: gli animali sicuramente la possiedono, ma Gregory Bateson pensava che anche gli ecosistemi complessi, come un ghiacciaio o una savana, manifestino i segni distintivi del mentale e dell’intelligenza.
Esistono poi molte forme di intelligenza ‘speciali’, che si specializzano nello svolgimento di determinate funzioni e sono diffuse in modo ineguale nel pianeta. Ve ne sono molte e io mi sono soffermato solo su alcune che mi paiono rilevanti (e che mi sono venute in mente….).
Quanto all’intelligenza artificiale, che in questa nostra epoca desta tanta meraviglia quanta preoccupazione, penso che se prendiamo per buona la definizionne di Frans de Waal, – e non vedo perché non dovremmo farlo – abbia poco senso dire che ‘non è veramente intelligente’.
Tuttavia, siccome oggigiorno persone molto intelligenti affermano con sicurezza che “i sistemi artificiali non sono veramente intelligenti”, i conti non tornano e ho l’impressione che siamo di fronte a un fraintendimento di natura lessicale.
Nel linguaggio ordinario, quando usiamo il termine ‘intelligenza’ tendiamo a includervi anche la caratteristica distintiva della coscienza e dell’intenzionalità. Per essere intelligente, qualcuno o qualcosa deve avere delle ‘intenzioni’ e quindi possedere un certo grado di consapevolezza. Personalmente credo che questo modo di trattare il concetto sia confusivo: una cosa, infatti, è l’intelligenza intesa come capacità di conseguire determinati scopi in modo flessibile e sulla base delle informazioni disponibili, altra cosa è l’essere cosciente, ovvero fare delle ‘esperienze soggettive’. Mentre l’intelligenza è relativamente semplice da definire, la coscienza è un dilemma sfingesco contro il quale battiamo la testa da secoli. Sia i neuroscienziati, sia gli psicologi cognitivi, sia i filosofi – che sono le tre categorie di studiosi che si occupano principalmente di tale questione – hanno dato vita a un’infinità di teorie su cosa effettivamente sia e come abbia origine la coscienza. Teorie che, naturalmente sono tutte in competizione tra loro e spesso suffragate da dati sperimentali insufficienti.. È una bella gatta da pelare.
Ecco perché ritengo che quando ci chiediamo se i sistemi di intelligenza artificiale sono o non sono intelligenti, dovremmo evitare l’ambiguo uso linguistico quotidiano e limitarci a una definizione precisa come quella di de Waal. Se facciamo in questo modo la risposta alla fatidica domanda non può che essere positiva. I sistemi AI sono intelligenti, a volte sorprendentemente intelligenti, e il punto semmai è un altro e riguarda non l’intelligenza ma la coscienza. Al loro massimo livello di sviluppo i nostri androidi intelligenti saranno anche consapevoli, vivranno delle esperienze soggettive? Il sensibilissimo e dolente bambino artificiale rappresentato da Spielberg in AI è uno zombie filosofico oppure è cosciente come noi? Andando ancora oltre, possiede un’anima? Se fosse possibile, vorrei porre questa domanda a Sant’Agostino… È il vero tema, il vero problema etico cui vale la pena di dedicarsi, anche perché getta luce su ciò che siamo o non siamo noi come esseri umani.