IL PRIMATE DELLA POLITICA
Scimpanzé, bonobo e altri animali (primatologi compresi) contro la tirannia della realpolitik

 

Massimo Morelli

Aristotele

Aristotele, il ‘farmacista’ della filosofia

Molti secoli fa, nella sua opera in otto libri dedicata alla Politica, il sommo Aristotele affermò che l’uomo è un ‘animale politico’. Dal IV secolo avanti Cristo questa succinta definizione è giunta sino a noi senza perdere quasi nulla della sua incisività originaria, e di solito viene interpretata nel senso che è nella nostra natura di esseri umani la tendenza a formare gruppi e comunità. In parole semplici, ci piace stare insieme agli altri, il che è a grandi linee corretto.
Tuttavia basta rifletterci un po’ sopra per rinvenire altri spunti: innanzitutto Aristotele ci dice che l’uomo è un animale, il che può apparire scontato ma non lo è perché nei secoli dei secoli noi umani abbiamo accettato con riluttanza di appartenere alla categoria, e sempre con molti distinguo, precisando di costituire comunque un’eccezione, un’élite straordinaria non foss’altro perché dotati di un linguaggio verbale ignoto agli altri animali. Sarà, ma in quella sua celebre definizione Aristotele su questo punto non si era soffermato: animali siamo e animali restiamo, con o senza il tanto celebrato linguaggio verbale. Un’altra conseguenza importante è che se la nostra natura è caratterizzata tanto dall’essere animali quanto dall’essere creature ‘politiche’, molto probabilmente il nostro essere animali getta luce sul nostro essere politici e il nostro essere politici getta luce sul nostro essere animali. I due aspetti si illuminano a vicenda, e proprio qui sta il punto, nel senso che il modo in cui consideriamo gli altri animali contribuisce a spiegare il nostro modo di intendere la politica, e il nostro modo di intendere la politica influisce sul modo in cui guardiamo agli altri animali. Anche per questo, in fin dei conti l’etologia è tenuta in così gran conto.

Ritratto di Thomas Hobbes

Il lugubre Thomas Hobbes

Cominciamo col chiederci in che modo, nel corso del tempo, abbiamo studiato, descritto e spiegato il mondo animale, e quindi anche noi stessi. Qui ci viene soccorso un’altra definizione elaborata da un filosofo, questa volta più vicino a noi e residente nelle isole britanniche. Thomas Hobbes, infatti, è passato alla storia anche per la sua definizione dell’uomo come ‘homini lupus’. Tra tutti gli animali Hobbes andò a prendere proprio il lupo, peraltro prendendo un granchio ante-litteram perché oggi sappiamo che il lupo, pur essendo un abile predatore inter-specie, è al contrario un animale assai altruista e collaborativo nella dimensione intra-specifica. Ma dobbiamo perdonare il lugubre Hobbes considerando che fu abbandonato dal padre sacerdote anglicano all’età di sei anni e dovette farsi strada con le sue sole forze in un’Inghilterra molto ‘competitiva’ e caratterizzata da condizioni di vita oltremodo difficili. Non desta sorpresa che descrivesse la vita umana come “sgradevole, brutale e breve”. Un paio di secoli più tardi Charles Dickens tratteggiò la vita quotidiana nella terra di Albione in termini non molto diversi.
Sta di fatto che Thomas Hobbes ci ha lasciato in eredità una concezione del mondo animale come dominato da un radicale istinto di sopraffazione simboleggiato dal lupo, e dell’uomo come di un essere che dissimula con belle parole e maniere un comportamento sostanzialmente identico a quello degli animali predatori. Più tardi la teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie animali – compreso l’uomo – per effetto della variazione dei caratteri ereditari e della selezione naturale fu spesso interpretata a sostegno dell’opinione di Hobbes, anche se va detto che Darwin non aveva una visione così unilaterale del mondo animale, mentre l’aveva il suo prosecutore Thomas Henry Huxley, non a caso soprannominato ‘il mastino di Darwin’.

Copertina del libro Il gene egoista di Richard Dawkins

Il gene egoista di Richard Dawkins

Questo modo di pensare alla natura come mero campo di battaglia tra individui in competizione per la sopravvivenza è stato recentemente rinvigorito dal successo su scala planetaria della teoria di Richard Dawkins sul gene egoista [Richard Dawkins, Il gene egoista, 1^ ed. italiana Zanichelli, Bologna, 1979]. In realtà è un’idea sviluppata già prima di lui dai biologi neodarwiniani Fisher, Haldane e Hamilton, anche se poi è stato Dawkins a renderla nota al grande pubblico Sappiamo di che si tratti: secondo Dawkins ciò che viene selezionato dal processo evolutivo non sono né i singoli organismi né le specie, bensì i geni, che vengono definiti ‘egoisti’ perché mettono in atto delle strategie volte a consentir loro di auto-replicarsi e diffondersi nelle popolazioni e nelle generazioni future. In realtà a questo proposito bisogna sottolineare che spesso per conseguire i loro fini i geni ricorrono a strategie almeno apparentemente altruistiche, che molti eminenti biologi sono assai critici con questa impostazione, e che i filosofi hanno spesso mosso a Dawkins un’obiezione che mi pare fondamentale: la metafora del gene ‘egoista’ è parecchio fuorviante perché i geni difettano evidentemente di intenzionalità e di coscienza; le loro strategie sono sicuramente efficienti ma non deliberate, e questo fa tutta la differenza del mondo.
Ma non entriamo in tali questioni e limitiamoci a constatare che anche la teoria di Dawkins ha contribuito a diffondere il pregiudizio della natura come luogo di abusi e sopraffazioni reciproche a scopo di sopravvivenza.

Noto en passant che tutti questi fautori della natura come teatro di lotte per la sopravvivenza sono inglesi, sarà un caso? Ma in realtà non è vero, non sono tutti inglesi. Ad esempio, uno dei più celebri etologi moderni, l’austriaco Konrad Lorenz, è assurto a grande notorietà grazie al suo bestseller intitolato L’anello di Re Salomone [Konrad Lorenz, L’anello di Re Salomone, Adelphi, Milano, 1969] nel quale indaga le radici dell’aggressività animale intraspecifica, in particolare quella dei pesci, ma anche delle oche, dei fringuelli, dei cani e naturalmente dell’uomo. Ce n’è un po’ per tutti, ma come ha argutamente commentato Frans de Waal, quel libro uscì nel 1949, e in quegli anni tutti gli studiosi, sconvolti dagli orrori della seconda guerra mondiale, erano tesi nello sforzo di elaborare spiegazioni plausibili per il fenomeno dell’aggressività tra membri della stessa specie.

Frans de Waal

Il primatologo Frans de Waal

Intendiamoci, nessuno intende affermare che in natura non esistano la predazione, la lotta per la sopravvivenza e in generale la violenza sia inter- che intra-specifica. Ci mancherebbe, basta guardarsi qualche bel documentario in televisione per ammirare le crudeli efferatezze praticate da animali di ogni genere in ogni angolo del pianeta. Ciò che invece de Waal vuole sottolineare è che per tutta una serie di ragioni c’è la tendenza a non vedere, o comunque a sottostimare tutti i comportamenti altruistici, collaborativi e di aiuto reciproco che sono invece frequentissimi soprattutto tra gli animali ‘sociali’, che vivono in gruppo.
E poi, alcune esperienze concrete ci suggeriscono che questa visione tutta incentrata sull’egoismo competitivo nella realtà dei fatti non funziona. Un recente esperimento di darwinismo sociale ha prodotto risultati devastanti [Eric Michael Johnson, Survival of the Kindest, Seedmagazine, 24 settembre 2009. https://www.emory.edu/LIVING_LINKS/empathy/Reviewfiles/Seed.html]. L’ex CEO di Enron, Jeffrey Skilling, si ispirò alla teoria del gene egoista di Dawkins per dar vita a una versione in scala ridotta del meccanismo di selezione

Jeffrey Skilling

L’ex CEO di Enron Jeffrey Skilling

neodarwinista, denominata Rank and Yank (traducibile più o meno come ‘Classifica e Strappa’, che ricorda vagamente il Trangugia e Divora dell’Ultima Follia di Mel Brooks). Ogni sei mesi la Enron classificava tutti i dipendenti dell’azienda in base a un criterio di efficienza ed efficacia produttiva, dopo di che premiava con ricchi bonus il 5% con il ranking migliore e licenziava o trasferiva il 15% con il peggiore.
Ne derivò un clima di paura e competizione spietata tra i dipendenti: le persone erano disposte a tutto pur di ottenere un buono score e non essere licenziate, e il sistema tendeva a promuovere persone con tendenze antisociali, caratterizzate dall’assenza di scrupoli ed empatia per il prossimo. Risultato? Quando emersero i debiti occulti e la contabilità truccata la Enron crollò in borsa e Skilling subì una severa condanna per frode e insider trading. Inoltre, secondo Time al momento del crollo della Enron, il 20% delle aziende americane seguivano modelli di business simili. Evviva.

Pëtr Kropotkin

Pëtr Kropotkin

Per fortuna non tutti gli studiosi si sono allineati alla visione hobbesiana dominante. Il principe, zoologo e anarchico russo Pëtr Kropotkin, ad esempio, scrisse un importante saggio intitolato Il mutuo appoggio: un fattore dell’evoluzione [Elèuthera, Milano, 2020], nel quale sosteneva che la cooperazione svolge un ruolo tanto importante quanto quello della competizione nell’evoluzione degli animali sociali. Nell’affermare ciò si basava sulle sue ricerche condotte in Siberia, un territorio nel quale gli animali per sopravvivere sono spesso costretti a collaborare intensamente tra di loro. Egli ammirava Darwin, ma non Huxley, che a suo dire promuoveva una visione troppo angusta e in fin dei conti distorta del darwinismo. E va bene, si dirà, ma che c’entra, Kropotkin era un anarchico appassionato, e quindi è normale che coltivasse opinioni molto distanti dal mainstream scientifico della sua epoca…. Benissimo, ma il fatto che argomentasse a favore dell’abolizione della proprietà privata o statale in favore di quella collettiva testimonia solo di una sua particolare propensione e sensibilità per le istanze solidaristiche e collaborative, cosa che non incide affatto sulla validità delle sue argomentazioni.

Copertina del libro di David Sloan Wilson, L'altruismo

David Sloan Wilson, L’altruismo

Kropotkin non è stato il solo a criticare da posizioni edotte la validità della visione neodarwinista. Il fondatore della sociobiologia Edward Osborne Wilson e il suo allievo, il biologo evoluzionista David Sloan Wilson, ad esempio, hanno sostenuto l’importanza evolutiva della selezione di gruppo, della quale già Darwin aveva discusso nel suo saggio del 1871 L’origine dell’uomo (è molto improbabile che Darwin, ai giorni nostri, sarebbe stato un neodarwinista..). Secondo i due Wilson la selezione è un fenomeno multi-livello, che opera sia al livello dell’individuo, sia a quello dei gruppi sociali e quindi nel gioco della selezione genetica svolgono un ruolo decisivo anche l’altruismo e la cooperazione a livello di gruppo. Il gene egoista di Dawkins è solo una metafora su come i geni si trasmettono alla generazione successiva, mentre in realtà i singoli animali non sono indipendenti, bensì vivono all’interno di una rete di relazioni sociali che influiscono sulla loro e altrui sopravvivenza. Le loro azioni possono contribuire alla sopravvivenza e al benessere di tutti i membri del gruppo (si noti che Edward Osborne Wilson era anche un entomologo e aveva molto studiato i pattern relazionali collettivi delle formiche). Per spiegare il loro lavoro, i due Wilson fecero ricorso a un aneddoto riferito all’antico rabbino Hillel, cui fu chiesto di spiegare il significato della Torah reggendosi su un piede solo. Egli rispose dicendo: “Ciò che è odioso per te, non farlo agli altri. Tutto il resto è commento”. Riferendosi a questa storiella, i due studiosi dissero che la versione su un piede solo della teoria evolutiva si riduceva a : “L’altruismo batte l’egoismo all’interno dei gruppi. I gruppi altruistici battono i gruppi egoistici. Tutto il resto è commento”. [per approfondire: David Sloan Wilson, L’altruismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2015].

Copertina del libro di Frans de Waal Chimpanzee Politics

Frans de Waal, Chimpanzee Politics

Ma ai giorni nostri lo studioso anti-Dawkins più importante ed ascoltato è senz’altro il primatologo olandese Frans de Waal, autore, tra i tanti saggi pubblicati, degli ormai ‘classici’ Chimpanzee Politics [La politica degli scimpanzé, Potere e sesso tra le scimmie, Laterza, Bari, 1982] e The Age of Empathy [L’età dell’empatia. Lezioni dalla natura per una società più solidale, Garzanti, Milano, 2009]. De Waal racconta che quando lavorava sugli scimpanzè in cattività allo zoo di Arnheim in Olanda si era subito reso conto di essere di fronte ad animali molto ‘politici’, e per questo aveva cercato ispirazione nella lettura del Principe di Machiavelli. Sulle prime gli parve di riscontrare molte somiglianze con la dottrina del filosofo fiorentino: gli scimpanzé sono organizzati in strutture sociali molto gerarchiche, tra di essi sussiste una continua e strenua lotta finalizzata al conseguimento di un elevato status sociale e del potere, per ottenere i quali si impegnano in complicati e spesso ingegnosi giochi di alleanze diplomatiche. Essi sono, per dirla in breve, sempre alla ricerca del successo sociale e utilizzano mezzi molto simili a quelli umani per conseguirlo.
Fino al saggio di de Waal, a parte alcune notevoli eccezioni (Menzel, Kummer, Griffin), i primatologi, che pure avevano notato le notevoli complessità della comédie simiesque, tendevano ad attribuirle a strutture sociali inconsapevoli, non perseguite intenzionalmente, in una parola non-intelligenti. Un po’ come vengono considerate le complicatissime articolazioni sociali delle api e delle formiche. De Waal ruppe con tutto ciò e descrisse gli scimpanzé come agenti sociali intelligenti e addirittura sorprendentemente machiavellici. Ad esempio, una capacità che li contraddistingue e che noi uomini tendiamo ad attribuire unicamente a noi stessi è la cosiddetta ‘consapevolezza

Il principe di Niccolò Machiavelli

Il principe di Niccolò Machiavelli

triadica’, ovvero la capacità di interpretare correttamente la natura della relazione che intercorre tra me e l’interlocutore A e tra me e l’interlocutore B, ma anche di quella che intercorre tra A e B. Quei due si vogliono bene o si detestano? Oppure tra loro regna l’indifferenza? Com’è noto, l’accuratezza di queste osservazioni è fondamentale per avere successo nell’arena politica, basta pensare all’importanza della strategia divide ed impera… A quanto sembra in questo campo gli scimpanzé sono degli autentici  maestri. Chimpanzee Politics puntò i riflettori sull’intelligenza ‘machiavellica’ dei chimps, ma mano a mano che proseguiva nei suoi studi, De Waal cominciò a sentirsi insoddisfatto di questa chiave interpretativa. Quando si dice che una determinata strategia è ‘machiavellica’ di solito si intende che è improntata a un radicale utilitarismo cinico compendiato nel motto secondo il quale ‘il fine giustifica i mezzi’. Un po’ quello che si intende oggi quando si parla di realismo politico o di realpolitik: quel che conta è il raggiungimento dell’obiettivo a prescindere da qualsivoglia assunto di natura ideologica o etica. In realtà originariamente l’espressione realpolitik fu coniata da Ludwig von Rochau per descrivere la condotta politica di Bismarck, che più che di cinismo dette prova di spregiudicatezza (intesa in senso letterale, come assenza di pregiudizi) praticando una strategia di alleanze flessibili mirata al mantenimento di un equilibro de facto tra le grandi potenze europee. Con il tempo però è invalso l’uso linguistico secondo il quale la realpolitik equivarrebbe a una ricerca del potere con qualsiasi mezzo a disposizione e a dispetto di qualsivoglia scrupolo di ordine morale. Più o meno quel che si intende in genere per ‘machiavellismo’.

Eppure più osservava i suoi primati all’opera, più de Waal si rendeva conto che non erano per nulla dei campioni di realpolitik. Nella realtà dei fatti egli intravvedeva una società e una prassi politica caratterizzati certamente da incessanti lotte di potere, ma altresì animati da empatia e autentico spirito di collaborazione, spesso disinteressato. Secondo lui la continua sottolineatura degli aspetti competitivi rispetto a quelli solidaristici deriva principalmente da una distorsione prospettica degli studiosi, in particolare occidentali. Scimmie egoiste e avide? Certo, ma anche empatiche e altruiste.

Copertina del libro di Frans de Waal, L'età dell'empatia

Frans de Waal, L’età dell’empatia

De Waal ha trascorso gran parte della sua carriera a cercar di correggere questa distorsione, e non a caso uno dei suoi più celebri saggi successivi si intitola The Age of Empathy. Egli ha addotto decine di esempi eclatanti, dal maschio alfa che sfida cavi elettrificati e profonde pozze d’acqua per salvare una femmina del suo gruppo dall’annegamento, allo scimpanzè affetto da artrite e quindi impossibilitato a muoversi che viene dissetato dalle femmine che gli portano l’acqua nel cavo delle mani, e molti altri. Se osservate con mente scevra da pregiudizi dawkinsiani, queste comunità sono intessute di cure e attenzioni reciproche. Lo stesso maschio-alfa, che nell’uso linguistico dominante è descritto come una specie di King-Kong che si batte selvaggiamente il petto e malmena chiunque osi avvicinarsi, in realtà è spesso un fine diplomatico che intesse alleanze e mantiene la posizione dominante rischiando la sua vita per salvare quella degli altri. Certo, alle volte una bella randellata vale più di mille discorsi, il maschio-alfa lo sa bene, ma di solito chi si limita a menar le mani viene detronizzato in poco tempo.
Secondo de Waal l’empatia che contraddistingue tutti noi primati è un prodotto della selezione naturale che tende a premiare i gruppi sociali caratterizzati dalla prevalenza di comportamenti altruistici. E noi siamo gli ultimi eredi di questo sviluppo virtuoso, anche se per qualche motivo non ci piace ammetterlo, ci imbarazza, ci fa sentite deboli, e allora preferiamo descriverci come predatori seriali assetati di sangue. Ma, appunto, è solo metà della storia, e neanche quella più importante.

Ma torniamo alla politica. Con buona pace dei fautori della malintesa realpolitik, la politica (etimologicamente ‘arte di governare la polis, la comunità’) si fonda necessariamente sull’etica e quindi ha o dovrebbe avere come proprio obiettivo il conseguimento del maggior benessere possibile per il maggior numero di cittadini. In altre parole, la politica o è etica o semplicemente non è. E se non è più politica allora diventa qualcos’altro: non più l’arte di governare la polis, ma magari l’arte di di sfruttare le risorse della polis a vantaggio di un gruppo sociale privilegiato.
Il problema è che siamo ‘animali politici’, ma siccome tendiamo a considerare gli animali soprattutto come macchine predatorie, finiamo per interpretare il nostro essere politici allo stesso modo, appiattendoci al livello del pregiudizio hobbesiano. Pensiamo che la politica debba essere appannaggio di persone abili, manovriere e possibilmente prive di scrupoli, quelle che, nella sua biografia su Fouché, Stefan Zweig definiva “uomini dai nervi frigidi, la parola vuota e la mano svelta”. Anche il sopravvalutato Kissinger, pace all’anima sua, ha alimentato questo modo pregiudiziale di interpretare la politica, con i risultati che conosciamo e che ognuno è libero di giudicare come preferisce. Esiste anche il pregiudizio complementare, secondo il quale chi possiede un’indole autenticamente altruista e collaborativa sarebbe meglio non si dedicasse alla politica, se non vuole incorrere in sicuri fallimenti e indicibili sofferenze per sé e la cerchia dei suoi cari. Ma davvero le cose stanno così?
Mio nonno, che a differenza mia era un abile uomo d’affari era solito dire che “dal tavolo delle trattative devono alzarsi tutti in qualche misura soddisfatti: se qualcuno invece non lo è, prima o poi il suo malcontento porterà guai”. Eppure, mentre nel mondo degli affari qualcuno che la pensi così ancora si trova (non moltissimi in verità, ma ci sono), in politica sembrano essere davvero rara avis. Ma forse, come dice de Waal, qualcosa sta finalmente cambiando. L’età dell’empatia comincia a profilarsi all’orizzonte, e molti tra noi sembrano più disposti ad ascoltare la voce degli avi, siano essi i nostri nonni o i sorprendenti scimpanzé dello zoo di Arnhem.