ORIENTIS PARTIBUS. L’ATTENZIONE PER I SEGNALI DEBOLI DELL’ANTICA CINA
L’antica Cina ha sviluppato una cultura dei segnali deboli. Quel che conta non è il rapporto di successione, e tantomeno di causa ed effetto, quanto la concordanza e il convergere dei segni rivelatori di un certo ordine universale. Un grazie riconoscente all’amico sinologo Andrea Cantore per tutto quello che ci ha insegnato in questi anni (e che noi non abbiamo ancora del tutto compreso…) 

 

Massimo Morelli

L'Ideogramma Xu - il Vuoto

L’Ideogramma Xu – il Vuoto

Ricordo ancora il giorno in cui l’amico Andrea Cantore, medico allopatico ma anche agopuntore e studioso appassionato della medicina cinese antica, ci illustrò la struttura semantica dell’ideogramma Xu, il vuoto. All’interno di un paesaggio stilizzato si scorgono le striature tipiche del mantello di una tigre. Il vuoto è quindi rappresentato da un territorio al cui interno si muove indisturbata una tigre, e quindi non è esattamente vuoto, ma libero dalle presenze ordinarie (che si tengono prudentemente alla larga) e dominato da un predatore numinoso che richiama alla mente i celebri versi di William Blake:

Tyger! Tyger! Burning bright
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?

Sapendo che per il pensiero taoista e buddhista, se non orientale in genere, il vuoto equivale alla realtà ultima, alla ‘tela di fondo’, quell’ideogramma fu una rivelazione. Mi vennero in mente sia versi di Rilke, secondo il quale “il bello è il tremendo al suo inizio”, sia quel poco che avevo potuto trarre dalla lettura dell’antico testo shivaita Vijnanabhairava, La conoscenza del tremendo. Quell’ideogramma non parlava solo all’intelletto, ma faceva risuonare qualcosa di più profondo.  Capii forse anche un po’ meglio quale fosse il tratto caratteristico dell’antica scrittura ideogrammatica, ma su questo lascio la parola a Padre Arnaldo de Vidi:

L’aspetto più positivo della scrittura cinese è che aiuta a vedere le cose nel loro insieme e nella loro origine. Non disgiunge il ‘significato’ dal ‘significante’ e in linea con la filosofia cinese dell’universismo vede l’universo come un organismo, in cui l’uomo è armoniosamente inserito. Se l’alfabeto aiuta gli occidentali a distinguere e a specializzarsi, il sistema ideografico aiuta i cinesi (e i giapponesi, i coreani, i vietnamiti…) a pensare unitariamente e corresponsabilmente.

Mentre l’Occidente ha adottato dei simboli alfabetici convenzionali, guadagnandoci in agilità, flessibilità e articolazione del pensiero astratto, gli antichi cinesi preferirono mantenere un legame diretto tra significante e significato preservando la visione di insieme e una certa qualità poetica dell’espressione. Ecco allora che l’ideogramma An, pace, rappresenta una donna con un tetto sulla testa, e Hao, bene, buono, è composto dai grafemi stilizzati di una donna e di un bambino.
Secondo il sinologo francese Jean-Marc Eyssalet, l’essenza del pensiero cinese antico è espressa dall’ideogramma Hua, che significa metamorfosi ed è rappresentato da un uomo in piedi di fronte a un uomo sdraiato. Un uomo vivo di fronte a un uomo morto: è possibile esprimere in modo più diretto il continuo divenire che caratterizza la nostra vita? Tutto ciò che esiste cambia continuamente forma in un flusso incessante che non risparmia niente e nessuno. Il pensiero cinese ruota tutto quanto attorno a quest’idea della trasformazione e la saggezza consiste nel leggerne le dinamiche evolutive con la maggior chiarezza possibile. Non è un caso che il testo sapienziale cinese per eccellenza si intitoli I Ching, il libro dei mutamenti.

Copertina originale del libro La pensée chinoise di Marcel Granet

Copertina originale del libro La pensée chinoise di Marcel Granet

Noi occidentali tendiamo a leggere le trasformazioni in termini di rapporto causa-effetto, ma l’idea di metamorfosi del pensiero cinese è completamente diversa e aliena alla causalità. Mentre la relazione causa-effetto implica una successione tra antecedente e conseguente, nonché una qualche ragione per cui al primo succede necessariamente il secondo, il concetto cinese di metamorfosi si concentra sull’alternanza e sull’interdipendenza.

Invece di constatare successioni di fenomeni, i Cinesi registrano alternanze di aspetti. Se due aspetti appaiono loro legati, non è alla maniera di una causa e di un effetto: essi sembrano loro accoppiati come lo sono il diritto e il rovescio o, per utilizzare una metafora consacrata sin dai tempi dello Hi- tseu, come l’eco e il suono, o anche l’ombra e la luce. La convinzione che il Tutto e ciascuna delle totalità che lo compongono hanno una natura ciclica e si risolvono in alternanze, domina talmente il pensiero che l’idea di successione è sempre dominata da quella di interdipendenza. Non si avrà quindi difficoltà a usare spiegazioni a posteriori (Marcel Granet, Il pensiero cinese, Adelphi, Milano, 1971, p. 246).

Spiegazioni a posteriori? Caspita, di che si tratta? Granet prosegue con un esempio eclatante:

Un certo signore non ha potuto, da vivo, ottenere l’egemonia perché, ci viene detto, dopo la sua morte, gli sono state sacrificate vittime umane. L’insuccesso politico e i funerali nefasti sono aspetti solidali di una stessa realtà che è la mancanza di Virtù del principe o, piuttosto, ne sono segni equivalenti (Marcel Granet, Il pensiero cinese, Adelphi, Milano, 1971, p. 247).

Quel che conta non è il rapporto di successione, e tantomeno di causa ed effetto, quanto la concordanza e il convergere dei segni rivelatori di un certo ordine universale: quel principe non era destinato all’egemonia e ciò è ‘segnalato’ tanto dagli insuccessi in vita, quanto dalla natura aberrante delle sue esequie. Detta così può anche far sorridere ma, pensandoci bene, quante volte ci è capitato di comprendere una situazione, di scorgere le tendenze dominanti in un qualche sistema solo ex post, in virtù di qualche dettaglio rivelatore emerso a cose fatte. In politica, ad esempio, è spesso così: che la guerra civile italiana degli anni ’70 si fosse più o meno conclusa con il sacrificio del capro espiatorio Aldo Moro si comprese bene solo in seguito, quando negli anni successivi la violenza diminuì progressivamente di intensità. Era stato toccato un culmine, e di lì si tornò lentamente alla media statistica della vita politica italiana. E ancora, i grandi detective che tanto amiamo, da Sherlock Holmes al nostro e nostrano commissario Montalbano, sono più degli scienziati sperimentali alla ricerca dei nessi causali che hanno dato origine al delitto, o piuttosto dei maestri dell’ascolto in grado di avvertire e interpretare correttamente i segni rivelatori di una trasformazione sistemica già avvenuta o tuttora in corso? Probabilmente entrambe le cose, oriente e occidente insieme. 

Ne discende anche una certa riottosità del pensiero cinese antico per le grandezze fisiche. Misurare la dimensione o la frequenza dei fenomeni importa poco, molto più rilevante è cogliere la natura singolare, sottile, furtiva (il crimine, sempre il crimine…) dei segni rivelatori. Nell’antica Cina contavano quelli cui oggi facciamo riferimento come ‘segnali deboli’, mentre le grandezze fisiche e statistiche rivelavano solo gli aspetti più superficiali dei fenomeni. Qui Granet calca la mano e racconta che “un uccello che distrugge il suo nido dà l’indizio (fisico e morale) di uno squilibrio dell’Impero di estrema gravità, poiché il sentimento di pietà domestica viene meno anche tra le bestie più umili”.
A ben vedere la metamorfosi occupava un posto di rilievo anche nella visione del mondo classica: dagli eleati a Ovidio, il sentimento di unità e immutabilità profonda dell’essere (l’Essere di Parmenide come la ‘tela di fondo’ degli antichi cinesi) si accompagnava alla constatazione della fuggevolezza e illusorietà delle apparenze sensibili, impegnate in una continua trasmigrazione l’una nell’altra (Diana che si fa arborea per sfuggire alle smanie di Apollo come il nobile signore dell’I Ching che finisce per trasformarsi in un tiranno inviso al suo popolo). In profondità regna l’immutabile silenzio, in superficie il caotico caleidoscopio delle forme. Fummo saggi orientali anche noi, un tempo.

Il simbolo del Tao

Simbolo del Tao

Quello che noi chiamiamo simbolo del Tao, è invece più correttamente simbolo del Tai Chi, che significa principio o vertice supremo, laddove supremo va inteso nel senso di originario. Bisogna pensare al Tai Chi come a una sorta di asse, di midollo spinale cosmologico intorno al quale ruota tutto l’universo, e che naturalmente determina la natura, la qualità e il succedersi di tutti i fenomeni che lo costituiscono.
La consueta lettura del simbolo come alternanza e compenetrazione delle due polarità universali Yin e Yang è corretta ma un po’ semplicistica. La faccenda è più complessa. Il simbolo è costituito innanzitutto da un fondamento, un sostrato ultimo rappresentato da un semplice cerchio nero. È la cosiddetta ‘tela di fondo’, o se si preferisce il Vuoto, dal quale tutti i fenomeni scaturiscono e al quale tutti ritornano. Per noi in realtà il concetto di vuoto è un po’ fuorviante perché ce lo rappresentiamo in termini negativi, ovvero come ciò che resta (o non resta) dopo che abbiamo tolto tutto. In realtà il cerchio nero del Tai Chi è un principio germinale, che racchiude in sé ogni possibilità e che è definito ‘vuoto’ nel senso che, non avendo la stessa natura dei fenomeni mondani, in fin dei conti rimane inconoscibile. L’espressione ‘tela di fondo’ rende bene l’idea di ciò che esiste prima di tutto il resto e a partire dal quale un metaforico sarto cosmogonico procede a imbastire le diecimila cose.
Da questo principio germinale scaturisce una forma di energia che, sancendo il passaggio da uno a due, si configura come complementare alla tela di fondo. È la componente rossa, o bianca, del simbolo. Questa energia, detta Qi, è una sola e ha natura sia fisica che spirituale; il pensiero cinese sarà anche sotto molti aspetti più arcaico del nostro, ma almeno ha evitato di andarsi a ingolfare nella nefanda dicotomia mente-corpo. Il Qi è un’energia finissima che circola ovunque e che, essendo sia fisica che psichica, reagisce tanto in rapporto alle realtà oggettuali quanto alle simboliche; un flusso energetico di Qi può essere deviato tanto da un muro o uno spigolo quanto da un crocefisso o una statua del Buddha. E questa doppia sensibilità fa tutta la differenza del mondo rispetto alle nostre dicotomie tra materia e spirito, corpo e mente.
Il Qi è uno, ma di fatto si manifesta in tre modi diversi (a quanto pare questa scomposizione trinitaria dei principi originari è un archetipo universale), ovvero come Jing, come Qi medesimo e infine come Shen. Il primo termine, Jing o essenza, viene comunemente tradotto come ‘nutrimento’ o simili, e nello sviluppo alchemico rappresenta l’elemento trinitario più vicino alla materia organica, diciamo pure il più grezzo dei tre; l’ideogramma presenta a sinistra una spiga di riso con i suoi chicchi e a destra sopra una piantina giovane e sotto la carne. Si parla, insomma, di nutrimento: prima si mangia, poi viene tutto il resto.
Il passo alchemico successivo è la trasformazione di questa energia fisica in qualcosa di più rarefatto che viene definito Qi o ‘soffio’, concetto che ci rimanda immediatamente al nostro pneuma, di origine greca, che significa appunto soffio, vento, respiro e anche ‘spirito’ nel senso di qualcosa che spira. Anche in questo ideogramma c’è una spiga di riso, che però è qui sovrastata dalla rappresentazione del vapore che si innalza dalla pentola di cottura. Siamo quindi passati dal principio biologico alla sua raffinazione in qualcosa di meno materico e più pervasivo.
L’ultimo passaggio è la trasformazione del Qi in Shen, ovvero spirito, energia cosciente. L’energia è sempre la stessa, ma cambia la dinamica vibratoria, più grossolana nel Jing, intermedia nel Qi e finissima nello Shen, che alberga principalmente nel cuore e il cui ideogramma rappresenta le influenze celesti come quella dei raggi del sole. Si noti che pur essendo lo Shen la forma di energia più psichica o mentale, non risiede preferibilmente nella testa ma nel cuore a riprova del fatto che per gli antichi cinesi l’elemento intellettivo e quello emotivo-sentimentale non sono separabili. E anche qui c’è una bella differenza.

L'Imperatore Giallo

L’Imperatore Giallo

Questo schema è un po’ rigido, non va preso alla lettera. Qui la successione alchemica tra le tre manifestazioni dell’energia sembra essere di tipo bottom-up, dal nutrimento allo spirito, ma nel testo fondamentale della medicina cinese, il Huangdi Neijing (Libro interno dell’Imperatore Giallo), è ripetuto più e più volte che i soffi sono un dono del cielo, che il cielo dona e la terra accoglie. Ecco quindi che alla prospettiva bottom-up che dal jing risale allo shen attraverso il qi, se ne può opporre una top-down che dallo shen scende al qi e da questo al jing. Di fatto è una prospettiva trinitaria, e come nella nostra Trinità le gerarchie o i rapporti di successione ci sono e non ci sono, è tutto molto fluido; siamo in presenza di un’unica forma di energia che si manifesta in tre modi diversi. Del resto anche nella nostra vita, a volte il soffio dei pensieri/sentimenti incide sulla realtà materiale, a volte è vero l’opposto.
Dalla ‘tela di fondo’ originaria e immota del cerchio nero si manifesta quindi una forma di energia tripartita che viene rappresentata con il colore rosso (o bianco), e da questa prima trasmutazione (Hua) ha origine una pulsazione fondamentale simboleggiata dai concetti di Yin e Yang. L’energia universale non circola in modo uniforme, ma palpita, sale e scende ritmicamente come in un battito. Tutto ciò che esiste è attraversato da un pulsare ritmico che genera innumerevoli altre pulsazioni e che da un lato dà vita e dall’altro dirige il gioco delle diecimila cose. Ecco quindi i fatidici Yin e Yang che secondo la tradizione risalirebbero ai primi astronomi, e in effetti vengono citati in un calendario del III secolo a.C. Il ritmo dell’universo si manifesta innanzitutto nell’universo stesso, nell’eterno ritorno dei fenomeni celesti. Nel Che King, uno dei più antichi classici cinesi, il termine Yin indica i versanti ombrosi, ciò che è interno, “il recesso ombroso e freddo in cui, l’estate, si conserva il ghiaccio” (Marcel Granet, Il pensiero cinese, Adelphi, Milano, 1971, p. 88). Lo Yang , all’opposto, fa riferimento ai versanti assolati, alla buon esposizione per un edificio o una città, ma anche “all’aspetto maschio di un danzatore in piena azione”.
Le metafore sono molto concrete, ma è evidente che i concetti di Yin e Yang sono astratti, o come si esprime Granet, sono ‘le rubriche maestre’ (ma quanto geniale è questa definizione di ‘rubriche maestre’?) sotto alle quali è possibile sussumere la sconfinata varietà dei fenomeni. Essi non indicano cose, sostanze, ma la polarità della pulsione universale, e in ultima analisi gli estremi di una relazione, anzi della relazione. L’universo pulsa, è ciclico, e i due aspetti opposti attraverso i quali si esprime sono appunto lo Yin e lo Yang. In principio, anche qui, c’è una relazione.
Ciò che sovrintende alla relazione e all’alternanza di Yin e Yang è il fatidico Tao di cui molto si è detto e probabilmente poco compreso. Anche qui bisogna evitare di cedere al vecchio impulso e appellarsi al principio di causalità. Il Tao non è la causa dei fenomeni, né tanto meno di Yin e Yang, le cose ci sono perché ci sono, il mondo esiste perché esiste e non si è mai data un’origine nel tempo. Nulla è stato creato. Il Tao è un principio regolatore, si limita a sovrintendere all’Ordine dei fenomeni, alle loro metamorfosi. Come si esprime Granet, il Tao “non crea gli esseri, li fa essere come sono”.
Gregory Bateson commenterebbe qui che, all’opposto di quanto ha fatto l’Occidente, l’antica Cina e poi tutto l’Oriente hanno preferito schierarsi sul versante della forma anziché su quello della sostanza. Il problema non è tanto quello di capire cosa ha dato origine all’Essere rispetto al Nulla, quanto capire cosa ha dato forma all’Essere così come lo sperimentiamo.

Ideogramma del Tao

Ideogramma del Tao

L’espressione Tao viene di solito tradotta come Via, Sentiero, a sottolineare la realtà dinamica e non ipostatizzabile del grande principio regolatore universale. Anche l’ideogramma è magnificamente espressivo: in una delle rappresentazioni più antiche, il Tao è descritto come una testa d’uomo con i capelli lunghi, tipica degli sciamani, e una serie di passi di danza che cominciano con il piede sinistro.

Il carattere Tao raffigura nel suo antico pittogramma una testa con i capelli sciolti, come quella di un mago, unita a tre impronte di passi che evocano passi di danza. È il ‘passo’ di un mago. Tradizionalmente il piede sinistro si leva per primo, poi il piede destro si unisce al sinistro; poi il passo ricomincia. L’ideogramma esprime un’azione fatta da un iniziato detentore di un sapere efficace. Tutto avviene non simbolicamente, ma nella realtà. Il reale è modificato ‘qui e ora’ dall’incedere di un mago, di uno sciamano (Claude Larre, Lo spirito della cultura cinese, Jaca Book, Milano, 2007, p. 36).

L’universo come danza di uno sciamano, è difficile pensare a qualcosa di meno facilmente circoscrivibile, ipostatizzabile, mineralizzabile in qualche feticcio fatto oggetto di adorazione. Ipostatizzazione feticistica? No grazie. Lo sciamano non crea il mondo, lo influenza, dispone il corso degli eventi, non tuttavia secondo un rigido piano architettonico (nostra metafora cosmogonica preferita), bensì attraverso una danza rituale. È tutto più fluido, meno meccanico, noi abbiamo le collisioni tra particelle, gli antichi cinesi le danze sciamaniche… A ciascuno il suo.