QUEL NON-OSCURO OGGETTO DELLA DEVOZIONE: LE ICONE DI FLORENSKIJ
Il valore delle icone russe del XIV e XV secolo come ‘porte regali’, vie di collegamento tra il mondo visibile e quello invisibile, noumenico, abitato dai diversi gradi della manifestazione divina. 

 

Massimo Morelli

Pavel Florenskij

Pavel Florenskij

Matematico, filosofo, teologo e sacerdote ortodosso tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, Pavel Florenskij era un pozzo insondabile di scienza, e viene ricordato soprattutto per il suo discorso sul valore delle icone come ‘porte regali’, vie di collegamento tra il mondo visibile e quello invisibile. La differenza tra i due ambiti per Florenskij non potrebbe essere più netta: da una parte il mondo dei fenomeni, abitato da uomini e animali, dall’altro il mondo noumenico, abitato dalle essenze angeliche e dai diversi gradi della manifestazione divina. In realtà, nella sua visione, i due regni non sono simmetrici, rispettivamente equivalenti: mentre il mondo del visibile è limitato e circoscritto, quello invisibile, nella sua infinità, circonda il primo da ogni lato:

Così nel campo della contemplazione sovrasensibile: il mondo spirituale, invisibile, non è in un qualche luogo lontano ma ci circonda; e noi siamo come sul fondo dell’oceano, siamo sommersi nell’oceano di luce, eppure per la scarsa abitudine, per l’immaturità dell’occhio spirituale, non notiamo questo regno di luce, nemmeno ne sospettiamo la presenza e soltanto col cuore indistintamente percepiamo il carattere generale delle correnti spirituali che si muovono attorno a noi (Pavel Florenskij, Le porte regali, Milano, Adelphi, 1957, p. 59).

Icona della Trinità di Andrej Rublev

Icona della Trinità di Andrej Rublëv

Il mondo dei fenomeni e quello sovrasensibile, tuttavia, non sono del tutto separati. Esistono degli esseri, i santi, che hanno accesso ad entrambi i regni e sono in un certo senso degli araldi, dei messaggeri tra il divino e l’umano. Ci sono anche delle porte, che Florenskij definì ‘porte regali’. le quali consentono a chi vive nel regno visibile di cogliere almeno dei riflessi di quello invisibile. Queste porte sono principalmente le opere d’arte, la vera arte, quella innervata dalla presenza divina, e Florenskij si riferisce soprattutto alla principale forma artistica del cristianesimo ortodosso, le icone russe del XIV e XV secolo. Si tratta di immagini realizzate con una tecnica particolarissima e di soggetto rigorosamente religioso, come le vite dei santi, la Madre di Dio, la Trinità, l’Annunciazione, il Battesimo di Gesù. Le icone erano ostentate ai fedeli nell’iconostasi, ovvero il tramezzo che nelle chiese ortodosse separa la navata occupata dai fedeli dal santuario nel quale il sacerdote officia il rito dell’eucaristia: l’insistenza di Florenskij sulla separazione tra i due regni deriva anche da questa netta separazione architettonica tra navata e santuario che caratterizza l’ekklesia d’Oriente. Sappiamo qualcosa di quest’arte anche grazie a uno straordinario film che Andrej Tarkovskij dedicò ad Andrej Rublëv, il più celebrato tra i pittori di icone russe.
Le icone sono autentiche rivelazioni della divinità che approfittano del talento pittorico degli artisti, anch’esso peraltro dono divino, per manifestarsi nel mondo. Florenskij non ne fece una questione di partigianeria religiosa: secondo lui anche il grande Raffaello era ossessionato da visioni onirico-allucinatorie della Vergine Maria, che tentò in ogni modo di riprodurre nelle sue opere. Racconta infatti Baldassarre Castiglione, intimo amico di Raffaello:

Una volta, la notte, mentre nel sonno pregava la Vergine Santissima, come spesso gli accadeva, si destò di colpo, preso da una forte agitazione. Nella tenebra notturna lo sguardo di Raffaello fu attratto da una luminosa visione sulla parete, davanti al suo giaciglio, la fissò e vide che, ecco, sul muro l’immagine della Madonna splendeva di un vivo fulgore e somigliava in tutto a una figura viva; manifestava la sua divinità in modo tale che gli occhi dell’esterrefatto Raffaello furono inondati di lacrime. […] la mattina, alzandosi, era come rigenerato. La visione gli si era impressa nell’anima e nella sensibilità, ed ecco perché gli riuscì di dipingere la Madre di Dio nella sembianza che portava nell’anima, e sempre guardò con trepida riverenza alla figura delle sue Madonne (Pavel Florenskij, Le porte regali, op. cit., pp. 76-77).

In tutti i suoi scritti sull’argomento Florenskij insiste sulla netta opposizione tra l’arte sacra delle icone russe, tesa a rappresentare l’incanto del mondo noumenico, e quella che prende avvio con il Rinascimento italiano, essenzialmente naturalistica, intenta a rappresentare la molteplicità dei fenomeni. Da una parte Andrej Rublëv, dall’altra Giotto e i suoi successori sul palcoscenico dell’arte occidentale.

Il primo discrimine tra l’arte delle icone e quella rinascimentale è l’uso della prospettiva. Mentre da Giotto in avanti l’arte occidentale tutta si compiace (e pretende) di ritrarre il mondo secondo le regole della prospettiva geometrica, le icone russe manifestano una suprema indifferenza rispetto a queste ultime e sono contraddistinte dalla compresenza di una molteplicità di punti di vista. A questo riguardo Florenskij compie alcune osservazioni decisive. Innanzitutto nota che i pittori delle icone sacre trasgrediscono certamente tutte le regole prospettiche conosciute, ma lo fanno in modo così plateale da convincerci che in realtà lo facciano volontariamente, in modo intenzionale. Disobbedire alla prospettiva è uno strumento tecnico-artistico per rimarcare l’origine divina e non terrena delle rappresentazioni esibite sull’iconostasi. Il rispetto della prospettiva non è un valore ma un disvalore.

La Scuola di Atene, Raffaello Sanzio

La Scuola di Atene, Raffaello Sanzio

Del resto, sottolinea Florenskij, i bambini, che conservano ancora uno sguardo incorrotto sulla realtà, riproducono quest’ultima senza minimamente preoccuparsi della coerenza prospettica. Inoltre Florenskij fa notare che nonostante tutti i loro sforzi, anche gli artisti occidentali riescono ben raramente a rispettare i canoni prospettici. Il più delle volte le loro opere sono contraddistinte da numerosi errori more geometrico: l’Ultima cena di Leonardo, la Scuola di Atene e la Visione di Ezechiele di Raffaello, l’Apostolo Marco che libera uno schiavo dal martirio del Tintoretto, il Sogno di Filippo II e tanti altri dipinti di El Greco, il Paesaggio Fiammingo di Rubens e la Conversione di San Paolo di Michelangelo sono alcune delle opere prospetticamente scorrette citate da Florenskij a sostegno della sua tesi.
Su questo tema si è espresso un altro studioso russo, più vicino a noi. Si tratta del linguista, filologo e storico dell’arte Boris Uspenskij, secondo il quale:

Nel Medioevo la rappresentazione figurativa, e in particolare quella delle icone, si orientava prevalentemente su una posizione visuale interna, cioè sul punto di vista di un osservatore situato come all’interno della realtà rappresentata e che si trovi di fronte a chi osserva il quadro. La pittura rinascimentale, al contrario, è intesa come una ‘finestra sul mondo’ e di conseguenza si orienta su una posizione visuale esterna, cioè sul punto di vista di un osservatore che per principio non fa parte di tale mondo (B.A. Uspenskij, ‘Destra’ e ‘sinistra’ nella raffigurazione delle icone, in A. Pinotti, Il rovescio dell’immagine, Tre Lune Edizioni, Mantova, 2010, p. 245).

Cristo Pantocratore

Cristo Pantocratore

Mentre nella pittura bizantina o nelle icone russe sono il Cristo Pantokrator o la Vergine di Smolensk a rivolgere il loro sguardo (e che sguardo) verso l’osservatore, nella pittura occidentale dal Rinascimento in avanti è invece l’osservatore a guardare il mondo attraverso la fatidica finestra-cornice. Uspenskij non si spinge a tanto, ma dal punto di vista di Florenskij la differenza tra i punti di vista interno e esterno sarebbe imputabile non a una semplice evoluzione tecnico-formale, ma a una profonda alterità di ordine ontologico. Mentre l’icona è il veicolo di una rivelazione che dal regno delle essenze angeliche discende sulla terra, la pittura rinascimentale si manifesta come uno sguardo ‘orizzontale’ sul mondo, una finestra aperta sulla realtà sensibile in tutta la sua caleidoscopica varietà. In questo senso non stupisce che la (più o meno) rigorosa prospettiva geometrica che contraddistingue la percezione dello spazio post-rinascimentale sia del tutto assente nell’iconografia bizantino-ortodossa. Mia madre teneva appesa in camera sua una riproduzione del celebre Arcangelo Michele di Rublëv: non posso dire che mi piacesse esteticamente, perlomeno non come mi piace un capolavoro della grande tradizione figurativa occidentale, eppure attirava immancabilmente la mia attenzione e mi era chiaro che si trattasse di un’opera d’arte radicalmente diversa dalle altre, pur pregevoli e in qualche caso originali, che avevamo in casa. Non voglio abbandonarmi a suggestioni pseudoesoteriche cui non mi sento affine, ma direi che quell’Arcangelo, pur essendo una semplice riproduzione neanche troppo fine, irradiava un suo enigmatico fascino. E anzi, proprio il fatto che non mi apparisse particolarmente bello, estetico, contribuiva a renderlo interessante. Qual era l’origine di quel fascino?

La sublime indifferenza nei confronti della prospettiva, come anche la manifestazione di quello che Uspenskij chiama punto di vista interno, sono forse le più essenziali caratteristiche distintive delle icone russe, ma c’è dell’altro, tanto altro. Per cominciare, a differenza della pittura rinascimentale le icone rappresentano soggetti semplicissimi, e questo non perché vengano a mancare le risorse tecniche o immaginative, ma perché vengono rappresentati i fondamenti stessi della vita spirituale.

Si può dire che più la visione è ontologica, più è universalmente umana la forma in cui si esprime e così le parole sacre intorno al medesimo mistero sono le stesse, semplicissime: il padre e il figlio, la generazione, il grano che cresce, lo sposo e la sposa, il pane e il vino, lo spirare del vento, il sole e il suo splendore, ecc. (Pavel Florenskij, Le porte regali, op. cit., p.89).

Questa dimensione ontologicamente più profonda è testimoniata anche dal supporto su cui è eseguita l’opera d’arte: mentre i pittori post-rinascimentali usano la tela montata su telaio, che è elastica, cedevole e mutevole come il mondo sensibile che rappresenta, le icone vengono dipinte su tavola o su muro, ovvero su supporti duri, resistenti, ontologicamente immutabili come il mondo delle essenze angeliche. Lo stesso si può dire delle sostanze coloranti, considerando che in occidente si usano prevalentemente i colori a olio, che come i suoni dell’organo, sono oleosi, succulenti, carnali. Peggio ancora l’incisione su legno o metallo vile che, sviluppatasi in ambito protestante, indica la prevalenza della dimensione razionale su quella estetico-carnale. Al contrario, per rappresentare le epifanie divine le icone usano la pellicola d’oro.

Nella pittura d’icone al tempo della sua fioritura, nelle icone perfette, l’oro è steso soltanto a foglie, cioè emana tutto il suo riflesso metallico […] Quest’oro è pura luce senza mescolanza e non rientra tra i colori che si percepiscono come luce riflessa: i colori e l’oro appartengono otticamente a distinte sfere dell’essere (Pavel Florenskij, Le porte regali, op. cit., pp. 136-137).

Perché proprio l’oro, così raro e difficile da lavorare in confronto coi docili colori a olio? La risposta è quasi scontata: l’oro è il simulacro terreno della lux aeterna e quindi della grazia divina. Da qui discende il suo valore, il suo essere così ricercato; gli uomini si danno altre spiegazioni, pensano che l’oro sia prezioso perché difficile da reperire, perché bello, estetico, perché adatto all’utilizzo in gioielleria… Ma la vera motivazione è un’altra, secondo Florenskij, e risiede in una sorta di reminiscenza ultraterrena che i riflessi luminosi dell’oro sono in grado di innescare nell’animo umano. I colori a olio indugiano sulla celebrata ombreggiatura, il gioco delle luci e delle ombre, la foglia d’oro se ne disinteressa completamente e si concentra nella manifestazione della luce in purezza; non la luce secolare, di quaggiù, ma la stessa essenza della luce, quella da cui tutte le altre sorgenti luminose in fin dei conti dipendono. Mentre nella pittura occidentale le cose sono illuminate dalla luce, nell’icona russa sono prodotte dalla luce. E la differenza non potrebbe essere più grande.

Maschera funeraria dell'antico Egitto

Maschera funeraria dell’antico Egitto

Un’altra importante diversità risiede nell’importanza attribuita ai volti. La pittura post-rinascimentale rappresenta i volti con grande finezza, ma li inserisce in contesti complessi e in competizione con altri elementi figurativi. L’icona russa, al contrario, concentra tutto il fuoco espressivo nel volto, a dispetto di qualsiasi altro componente, relegato al ruolo di dettaglio.
A questo proposito è doveroso ricordare la genesi della pittura d’icone proposta da Florenskij. In principio fu la maschera funeraria egizia, in cui il morto assopito accoglieva in sé il Dio mantenendo la sua individualità, rivelata dal volto. Non di ritratto si trattava, ma di una rivelazione in statu nascendi. Il passo successivo fu quello del ritratto funerario ellenistico, che passando dalla gravità sepolcrale del sarcofago alla più astratta tavola di legno di cipresso compiva un primo tentativo di emancipazione dai pesanti viluppi del mondo fenomenico. Infine fu la volta della pittura bizantina e dell’icona russa, che si affrancarono ancora di più dai vincoli fenomenici per esprimere, attraverso la metafisica della luce e i sacri volti, la piena rivelazione dell’essenza noumenica.
Possiamo anche pensare che nella sua apologia dell’icona russa Florenskij sia eccessivamente partigiano e tenda a dotare di significato spirituale anche aspetti – come il ripudio della prospettiva, l’uso della foglia d’oro, la naïveté dei soggetti, eccetera – che in realtà si sono sviluppati in un certo modo principalmente per motivazioni storiche o tecnico-artistiche. Può darsi, Florenskij è un po’ come Tarkovskij, è un valore discreto, o lo si accoglie o non lo si accoglie, non esistono vie di mezzo; il suo discorso si apre sul mistero, e davanti al mistero ognuno si comporta secondo le sue inclinazioni. Personalmente tendo a sospendere il giudizio e restare in ascolto, che mi sembra per l’appunto una forma di accoglimento.
Esistono quindi dei simboli non convenzionali la cui funzione consiste nel rivelare come in filigrana il mondo dei processi, dei noumeni, o come preferirebbe dire Florenskij, l’architettura sovrasensibile del mondo. Di questi simboli non convenzionali l’icona russa può essere considerata un prototipo ricco di valore euristico. Ricordiamo l’esclamazione di Andrej Rublëv nell’omonimo film di Tarkovskij: non siamo mica dei fiorentini…