DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI… IPERTROFIA INFORMATIVA
Ci lamentiamo tanto delle fake news, ma in realtà non è il problema più preoccupante.
Ce n’è un altro, a monte, che è sicuramente più grave, radicato e difficile da risolvere: l’ipertrofia informativa, che gli osannati Large Language Model con le loro ricorrenti ‘allucinazioni’ aggravano ulteriormente. Ma potrebbero anche contribuire a risolverlo…
Massimo Morelli

Marguerite Duras
Quando nel 1985 chiesero alla grande scrittrice francese Margherite Duras come sarebbe stato il nostro futuro, ella rispose che gli uomini sarebbero “naufragati in un oceano di informazioni” (vale la pena di risentirla, di tanto in tanto, questa sua brevissima profezia: https://youtu.be/J8-B9Ezr4VI). Ed eravamo per l’appunto nel 1985, quando ancora i computer erano a inizio carriera, internet agli esordi e chatGPT nella mente di Dio. Fu una visionaria, aveva colto nel segno. Le fake news, che tanto ci preoccupano e scandalizzano, sono in realtà un problema secondario, nel senso che derivano, per cascata, da un altro problema molto più vasto che si chiama ‘ipertrofia informativa’.
Il fenomeno è semplice: oggi siamo bersagliati da una gigantesca mole di informazioni, senza eguali nella storia, e considerati i limiti costitutivi del nostro pur mirabolante sistema nervoso centrale (su questi limiti la programmazione neuro-linguistica ha fondato un impero) abbiamo grandi difficoltà a metabolizzarle e trasformarle in vera conoscenza. Risulta sempre più difficile analizzare le informazioni in chiave critica e approfondire le ‘questioni emergenti‘ (ad esempio, che so, l’opzione crescita/decrescita), che spesso risultano essere assai complesse, ‘a valori multipli‘ e quindi indisponibili alla semplificazione. E attenzione che il problema non riguarda solo le persone poco acculturate, ma tutte quante, perché se è vero che chi ha un livello di cultura inferiore fa più difficoltà a interpretare correttamente le informazioni, è anche vero che i più ‘colti’ hanno di solito accesso a una mole di dati più ampia e quindi più difficile da elaborare.

Alfred Korzybski
Quel che conta davvero è che qualsiasi sia il canale che le veicola, le informazioni vengono trasmesse principalmente attraverso il linguaggio naturale, che pur essendo uno strumento meraviglioso del quale non vorremmo mai fare a meno, reca sempre con sé la possibilità di forti distorsioni. Alfred Korzybski, il fondatore della Semantica Generale, diceva senza mezzi termini che il linguaggio è un false friend di cui è bene non fidarsi troppo. E allora proviamo a partire proprio da lui, dal conte Korzybski, e a capire perché mai avesse sviluppato un atteggiamento così sospettoso nei confronti del linguaggio naturale umano. Mi scuso per l’estrema sintesi con cui presento i suoi argomenti, ma il contesto di un semplice blog lo richiede.
Secondo il conte Korzybski, i limiti fondamentali del linguaggio sono cinque:
1. astrazione (non-allness): le descrizioni verbali, che Korzybski preferiva chiamare ‘mappe’ non descrivono mai la realtà, ovvero il ‘territorio’ nella sua interezza, ma solo alcune sue caratteristiche ricavate per astrazione. Egli amava ripetere che ‘la mappa non è il territorio‘ ed avvertire che confondere la prima con il secondo è un errore gravido di conseguenze nefaste.
2. copula: secondo Korzybski l’uso estensivo della copula è un gravissimo problema perché questa tende a separare, distinguere fenomeni che nella realtà non sono separati. Per esempio se dico che ‘il suono è forte’, di fatto distinguo due aspetti (il suono e il suo volume) che da un punto di vista fenomenologico, nell’esperienza diretta, non lo sono affatto. Insomma, usando i verbi ausiliari (la stessa osservazione vale anche per il verbo avere, per esempio quando dico che ‘il signor X ha un bell’aspetto’) noi distinguiamo cose che in verità non sono distinte e con ciò stesso ci allontaniamo irrimediabilmente dall’esperienza concreta. Analizzare i fenomeni offre sicuramente grandissimi vantaggi (pensiamo all’indagine scientifica), ma Korzybski avverte che dobbiamo anche essere consapevoli delle inevitabili distorsioni che introduce.
3. contesto-dipendenza (non unicity): esistono sempre molte possibili descrizioni della stessa realtà (Rashomon…), molte mappe dello stesso territorio, e allora quel che fa la differenza è il contesto in cui esse vengono prodotte e condivise. Il contesto è in grado di modificare radicalmente il significato di una stessa descrizione, e il non tenerne conto espone alla possibilità di gravi fraintendimenti. Sappiamo tutti che basta cambiare la punteggiatura di un testo scritto per modificarne il significato o comunque l’effetto che produce negli interlocutori. Korzybski in questo senso si spinge molto in là, dicendo per esempio che dovremmo sempre abbinare un anno di riferimento al nome delle persone: siccome Massimo Morelli nel 2023 non è lo stesso individuo che abbiamo conosciuto nel 1992 (neanche dal punto di vista neuro-fisiologico), parlando del Morelli contemporaneo dovremmo sempre parlare del Morelli2023. È un sistema complicato e probabilmente irrealizzabile, ma dobbiamo considerare che Korzybski mira a un utilizzo più scientifico e meno distorsivo del linguaggio, cosa che evidentemente richiede dei sacrifici…
4. retorica/doublespeak: Korzybski lamenta gli effetti distorsivi degli artifici retorici, e in questo si allinea al lavoro del linguista William Lutz, cui dobbiamo il termine ‘doublespeak‘ inteso come tendenza di alcune persone (molte in verità) a manipolare il linguaggio per conseguire determinati fini. Lutz divide il doublespeak in quattro tipologie diverse:
- eufemismo: per evitare di descrivere la realtà nei suoi aspetti più sgradevoli si utilizzano parole volutamente più neutre, inoffensive, accomodanti;
- gergo professionale: per preservare il potere che deriva dall’appartenere a una certa casta professionale, si fa deliberato uso di un gergo tecnico che risulti incomprensibile agli altri;
- gobbledygook (in inglese sta per nonsense, linguaggio incomprensibile, supercazzola): si tratta di impilare parole su parole per sopraffare l’uditorio con uno tsunami di proposizioni inusitate (i politici qui sono maestri…);
- iperbole: si usano paroloni altisonanti per far apparire straordinarie cose assolutamente ordinarie, per dare importanza a persone e situazioni che in realtà non lo meriterebbero affatto.
5. effetto voodoo: le persone tendono ad attribuire alle parole e agli altri segni astratti un potere magico che spesso non viene confermato dai fatti. Modificare le mappe non significa affatto introdurre delle modifiche nel territorio, e l’uso di determinate parole influisce certamente sul modo in cui viene percepito e compreso il territorio, ma non sul territorio stesso.

Daniel Kahneman e Amos Tverski
Il messaggio di Korzybski è chiaro: le informazioni vengono scambiate attraverso un vettore, il linguaggio umano, che non è affatto esente da pericolosi bug e trappoloni concettuali. E tuttavia, come se non bastasse, quand’anche trovassimo il modo di evitare tutte le suddette distorsioni linguistiche, non saremmo comunque ancora in salvo perché resterebbero da affrontare i cosiddetti ‘bias cognitivi‘. Oltre ai limiti costitutivi del linguaggio naturale, infatti, dobbiamo confrontarci anche con i limiti costitutivi del processo decisionale, studiati approfonditamente dagli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tverski. L’idea di base è molto semplice: quando dobbiamo prendere delle decisioni, facciamo molta fatica a usare in modo appropriato lo strumento concettuale più potente a nostra disposizione, ovvero il pensiero logico-statistico, che offre molte garanzie ma viene percepito come troppo lento e faticoso. Al suo posto tendiamo invece a impiegare delle scorciatoie concettuali che Kahneman e Tverski chiamano ‘schemi euristici‘, i quali pur essendo certamente più rapidi, contengono dei bias cognitivi che introducono forti distorsioni e ci inducono in errore. Ecco alcuni tra i più importanti di questi schemi euristici:
- rappresentatività (framing): è il continuo ricorso agli stereotipi. La presenza di uno schema interpretativo già strutturato nella mente del soggetto oscura la visione neutra di una specifica situazione, condizionando le decisioni. Se c’è uno stereotipo a disposizione, questo tende a prevalere;
- disponibilità mnemonica: di fatto tendiamo a privilegiare le prime cose che ci vengono in mente;
- simulazione controfattuale: e se invece fosse andata così?… Noi tendiamo sempre a immaginare come si sarebbero potuti verificare risultati diversi da quelli che si sono effettivamente verificati. Questo schema accentua le reazioni emotive positive e negative: se immaginiamo esiti più positivi si avrà un peggioramento dello stato emotivo, se invece ne immaginiamo di più negativi noteremo un miglioramento dello stato emotivo;
- ancoraggio o dipendenza dai valori di partenza: la mente umana, quando deve fare una stima di tipo numerico su un problema che non conosce bene, si aggrappa al primo riferimento numerico disponibile. È il motivo per cui di solito il primo soggetto che interviene in una trattativa commerciale ha un vantaggio: può definire l’ancoraggio. Esempio: a un primo gruppo di persone venne chiesto se pensavano che il rischio che si verificasse a breve una guerra atomica fosse maggiore dell’ 1% (con un ancoraggio quindi all’1%); a un secondo gruppo venne chiesto se pensavano che questo rischio fosse inferiore al 90% (ancoraggio al 90%). Coloro che erano stati invitati a riflettere su un rischio maggiore dell’1% stimarono il rischio intorno al 10%, il secondo gruppo invece, con ancoraggio al 90%, stimarono le probabilità intorno al 25%;
- wishful thinking: tendiamo a preferire soluzioni che desideriamo si verifichino, che ci darebbero più soddisfazione;
- zona cieca (blind spot): è lo schema euristico fondamentale: ognuno si crede più obiettivo degli altri, meno soggetto a distorsioni derivanti dalla propria visione del mondo. Spendiamo troppa energia per proteggere il nostro ego e non ce ne rimane per accorgerci dei nostri errori percettivi.
Per concludere: opporsi alle distorsioni percettive del linguaggio e del processo decisionale richiede tempo, impegno, intelligenza e onestà, ma l’ipertrofia informativa ci toglie tutte queste cose. È difficile per chiunque gestire correttamente le informazioni, e quando la mole di queste ultime aumenta a dismisura l’impresa si fa quasi disperata. La prognosi appare infausta, ma deve pur esservi una via d’uscita… Ci serve innanzitutto una bella presa di coscienza, e poi un efficiente sistema collettivo e individuale di cut-off, di selezione dei messaggi. E se, in barba a tutti i timori e tremori contemporanei, fosse proprio l’Intelligenza Artificiale ad aiutarci in questo senso? Pensiamoci bene, proviamole tutte, altrimenti… ci toccherà dar ragione alla Duras.