NEUROSCIENZA E COSCIENZA #1
SANT’AGOSTINO E LA MENTE BICAMERALE
Massimo Morelli
La coscienza come voce o dialogo interiore
La domanda è semplice: quale contributo possono dare le neuroscienze contemporanee al dibattito sulle massime questioni filosofiche? Sono in grado di dare delle risposte o perlomeno riformulare i termini del discorso? Come al solito dipende dai casi e dai punti di vista, ma al di là dei possibili esiti resta comunque un esercizio interessante, euristico, capace di indicare nuovi percorsi e sollevare nuove questioni.
Il primo di questi quesiti, e forse il più importante di tutti, il più tipicamente filosofico è: che cos’è la coscienza? Di cosa diamine parliamo quando parliamo della coscienza? Il linguaggio quotidiano è pieno zeppo di idiomi che coinvolgono la coscienza: ‘ la voce della coscienza’, ‘avere un peso sulla coscienza’, ‘mettersi in pace la coscienza’, ‘obiezione di coscienza’, eccetera eccetera. Ma quanti ce ne sono! È chiaro che qui è in gioco qualcosa di cruciale, di decisivo per la nostra vita, per il nostro essere uomini. Sì, ma di che si tratta? Di cosa stiamo parlando esattamente?
È un tema cruciale, di cui la filosofia occidentale si è occupata sin dalle origini (anche quella orientale, in verità, ma non allarghiamoci troppo…), chiedendosi con accanimento quasi ossessivo cosa fosse la coscienza, quale fossero le sue funzioni e le sue caratteristiche distintive, dove avesse inizio e dove fine, insomma quali fossero i suoi limiti e cosa ci fosse oltre quei limiti. Persino la tradizione anglosassone, che di solito preferisce battere sentieri tutti suoi, si è cimentata con questo problema attribuendogli però un frame e un’etichetta diversi, quelli del cosiddetto ‘problema mente-corpo’. Ma alla fine sempre di coscienza stiamo parlando.
Il panorama concettuale è complesso, anche perché la coscienza si dice in molti modi, ci sono molte accezioni differenti del concetto di coscienza. Con questa parola si sono storicamente intese tante cose diverse, forse troppe. Come al solito conviene partire dall’inizio, e allora la prima accezione di coscienza con cui bisogna confrontarsi è quella di voce o dialogo interiore. Sappiamo di che si tratta: noi viviamo a cavallo tra due mondi, da una parte c’è il mondo esteriore offertoci dai sensi, in cui spesso il nostro primo compito è quello di sopravvivere, restare vivi e far restare vive le persone a noi care. Tuttavia c’è anche un’altra dimensione, un mondo interiore che Julian Jaynes ha chiamato ‘intracosmo’, con tutti i suoi sentimenti, le emozioni, i pensieri, le rimuginazioni…. Noi siamo sempre alla ricerca di una qualche forma di equilibrio tra extracosmo e intracosmo, un equilibrio diverso a seconda che si siamo estroversi o introversi, uomini d’azione o pensosi filosofi, eccetera.
La ψυχῇ di Eraclito e di Platone, il sogno di Achille

Achille e Patroclo
Già nel VI secolo avanti Cristo Eraclito, nel frammento 45 riportato da Diogene Laerzio, parla della coscienza (lui in realtà in greco antico usa il termine ψυχῇ) come di uno spazio immenso del quale, pur percorrendo ogni via sino all’estremo, non è mai possibile raggiungere i confini. La dimensione interiore è infinita, e come tale fonte di stupore e oggetto di profonde riflessioni. Riflessioni cui si dedicò, com’era lecito attendersi, anche il sommo Platone, che dovendo indicare quale parte dell’uomo avesse accesso agli archetipi ideali, salvo poi dimenticarli ed eventualmente recuperarli in seguito a un percorso di liberazione progressiva, usa anch’egli, come Eraclito, il termine ψυχῇ. Questo antico vocabolo, che viene spesso tradotto con soffio, spirito vitale o addirittura con anima, ha vissuto uno slittamento semantico interessante: mentre in principio (Tirteo, Alceo, Euripide) è utilizzato principalmente nel senso di ‘vita’, o meglio ancora di principio della vita, ciò che ci rende vivi e vitali, a partire più o meno dal V secolo avanti Cristo comincia a rappresentare soprattutto un’anima-spettro, ovvero ciò che del principio vitale sopravvive dopo la morte. Il focus si sposta dall’esistenza in corso a quella post-mortem. Di quest’ultimo uso v’è un eclatante esempio anticipatorio all’inizio del canto XXIII dell’Iliade, laddove la ψυχῇ di Patroclo appare in sogno ad Achille: “Quando il sonno lo prese, lo avvolse dolcemente, sciogliendo le pene del suo cuore e delle sue membra. All’improvviso, gli apparve l’ombra di Patroclo: simile a lui in tutte le cose, la statura, gli occhi bellissimi, la voce, gli abiti. Come fanno i sogni, gli rimase sospeso sopra la testa”. Proprio qui, tra i sogni inquieti degli Achei, comincia il suo percorso trionfale il concetto di ‘anima’.
Va detto che ψυχῇ indicava anche il respiro, ovvero qualcosa che sta tipicamente a cavallo tra la dimensione esteriore e quella interiore dell’uomo, qualcosa che media tra il dentro e il fuori. E poi, da soffio e respiro sino al significato di ‘voce’ il passo è breve. Sarebbe avventuroso tradurre ψυχῇ come ‘voce’, ma insomma possiamo considerarlo una specie di significato correlato, qui particolarmente interessante perché per l’appunto di coscienza come voce interiore stiamo parlando. Il termine ‘voce’ viene dalla radice indoeuropea ‘vak’ che indica le azioni del ‘dire’ e soprattutto del ‘chiamare’, perché prima del dire vi fu il chiamare. La voce interna che ci chiama e ci parla, proprio di questo stiamo… parlando.
Ma il vero campione della coscienza come dialogo interiore è Sant’Agostino, colui che ha introdotto nella nostra civiltà il concetto di anima, del quale non siamo peraltro più riusciti a liberarci. Anzi, gli iper-materialisti che pensano di essersene liberati sono spesso i più ‘animosi’ di tutti, il che è paradossale. Di Agostino sappiamo molte cose, soprattutto perché ha scritto un bestseller multisecolare come Le Confessioni, nel quale racconta in chiave cristiano-escatologica – per l’appunto come una confessione rivolta a Dio stesso – tutta la prima parte della sua vita. Descrivendo il suo mondo interiore, o la sua ‘anima’ come la chiama lui, Agostino si esprime in modo simile a Eraclito, parlando dei “monti e i colli dei miei pensieri […] le distese e gli ampi ricettacoli della memoria, ove si trovano i tesori di immagini senza numero accumulati da ogni genere di cose percepite” (Confessioni, XI, 4; X, 8)
Qui lo stupore, che noi oggi riserviamo alle manifestazioni dell’inconscio, è diretto invece ai pensieri e i sentimenti interiori; è la coscienza, il mondo interiore, l’anima a destare meraviglia.

Sant’Agostino nel dipinto di José de Ribera
Conoscendo nei dettagli il percorso formativo di Agostino capiamo bene da dove abbia avuto origine questa grande attenzione per il mondo interiore. Prima di convertirsi al cristianesimo Agostino fu manicheo, ovvero seguace della dottrina di un principe persiano vissuto nel terzo secolo dopo Cristo. In seguito a una personale esperienza di illuminazione, questo principe Mani aveva elaborato una sua personale visione secondo la quale il mondo è abitato da due principi opposti, la Luce e le Tenebre, che si combattono senza tregua. Si avverte un forte profumo di Oriente, ma qui, a differenza che nella polarità cinese di yin e yang, i due principi non stanno sullo stesso piano: il manicheismo è tutto sbilanciato sul versante della Luce, e quindi del Bene, che bisogna far prevalere con ogni mezzo a disposizione. Se poi si va a vedere di cosa siano fatti la Luce e le Tenebre si scopre senza sorpresa che le Tenebre sono corporee, materiali, mentre la Luce è immateriale, puro spirito disincarnato. Mani arriva addirittura a definire il corpo umano come ‘la grande sventura’, proprio in quanto incarnazione tenebrosa che ostacola il pieno manifestarsi del principio spirituale. Solo pochi uomini, seguendo delle severe pratiche ascetiche, riescono in vita ad affrancarsi dall’inerzia della materia, mentre gli altri restano intrappolati nelle alterne vicende della contesa tra i due principi. Dei due versanti dell’esperienza umana uno, quello interiore, è esaltato come principio di liberazione, mentre l’altro, quello esteriore, è ripudiato come origine di ogni sofferenza.
Anche l’altra grande influenza sulla formazione di Agostino, quella neoplatonica, spinge nella stessa direzione. Agostino legge Le Enneadi di Plotino nella traduzione latina di Mario Vittorino, e vi trova una dottrina particolarmente affine che di fatto è la tappa intermedia tra il manicheismo e la sua piena conversione al cristianesimo. I neoplatonici propugnavano una visione trinitaria in cui l’Uno inteso come principio divino indivisibile si manifesta in primis come Logos, che possiamo tradurre come parola, discorso (ma come piace a noi anche in qualche misura come voce, voce che chiama) e infine anche come Anima, ovvero come dimensione dell’interiorità umana. Agostino riprende questo tema trinitario neoplatonico e lo rielabora a modo suo affermando che alla Trinità cristiana del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo corrispondono tre funzioni psichiche, ovvero l’intelletto, la volontà e la memoria. Et voilà, quasi non ce ne siamo accorti, eppure è nata la psicologia.
Secondo Agostino proprio seguendo la voce interiore, attraverso l’introspezione e la confessione, è possibile incontrare Dio. E infatti lui dice: “In interiore homine habitat Deus”. Tra l’altro questa idea che scendendo in profondità nell’animo umano sia possibile trovare la verità, sotto forma di Dio o di legge morale, avrà poi un grande successo nella storia della filosofia. Ricordiamo che Kant, parecchi secoli dopo, dirà che soltanto due cose sono capaci di stupirci profondamente: il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi. Ogni uomo, se è capace di guardarsi dentro, sa benissimo cosa è giusto e cosa non lo è, cosa è morale e cosa non lo è. Nell’anima, nella coscienza, si trova la verità e di questa verità fa parte l’autentica dimensione del tempo. A noi oggi queste idee appaiono scontate, ma in realtà sono state elaborate attraverso un lavorio intellettuale durato secoli.
Tornando ad Agostino, nell’anima si rivela Dio anche e soprattutto perché attraverso la funzione animica della memoria noi abbiamo accesso alla vera dimensione del tempo. Egli fa un’osservazione molto semplice: nella nostra vita quotidiana, esteriore, il tempo è ridotto a mero presente. La formuletta la sappiamo: il passato non è più, il futuro non è ancora e allora ci resta solo il presente che però per Agostino non è il presente rivelatore delle filosofie orientali o della mindfulness, bensì una dimensione compressa e impoverita dell’esistenza umana. Non il presente come eternità nel singolo istante, bensì come forma di vita depauperata. Il presente esteriore non ci porta da nessuna parte, mentre al contrario secondo Agostino la dimensione autentica del tempo si dispiega solo nell’interiorità dell’anima umana. È solo grazie alla memoria che noi siamo in grado di vivere il presente come attenzione, il passato come ricordo e il futuro come attesa. Tutte le dimensioni temporali sono compresenti e il tempo è per l’appunto una misura dell’anima e una manifestazione della natura divina.
In conclusione, Agostino tende a sottolineare con forza, a ogni piè sospinto, sempre lo stesso aspetto: nel mondo interiore, nell’anima si trovano tutti gli elementi indispensabili alla nostra salvezza, mentre nel mondo esterno della quotidianità non c’è che perdizione e disorientamento. Dobbiamo anche tenere presente il mondo estremamente violento e difficile in cui vive Agostino; un mondo nel quale spesso non si va per il sottile, in cui ingiustizia e crudeltà sono all’ordine del giorno. Si pensi solo alla passione di Cristo o al destino spettacolarmente infame che toccò agli schiavi rivoltosi guidati da Spartaco. Non a caso in un passaggio indimenticabile, Agostino afferma che “Il mondo è come un torchio, che spreme. Se tu sei morchia, vieni gettato via; se sei olio vieni raccolto. Ma essere spremuti è inevitabile. Soltanto osserva la morchia, osserva l’olio. La spremitura ha luogo nel mondo attraverso la fame, la guerra, l’indigenza, la carestia, il bisogno, la morte, la violenza, la rapina, la cupidigia; queste sono le miserie dei poveri e le calamità degli stati, noi le sperimentiamo…”. Noi, tutti, le sperimentiamo…
C’è anche un altro aspetto molto interessante, in Sant’Agostino: proprio lui ci offre una delle prime testimonianze di lettura intrapsichica; nel mondo antico i libri venivano comunemente letti ad alta voce, e la lettura era in un certo senso un’esperienza sociale. Magari leggevi ad alta voce da solo, ma potenzialmente potevi comunque essere udito e seguito da altri, era comunque una dimensione plurale. Con Agostino si comincia invece a parlare di lettura silenziosa, potremmo anche dire una lettura coscienziosa.
La mente bicamerale di Julian Jaynes
Tutto questo insistere di Agostino sulla voce o il dialogo interiore mi ha fatto pensare alla mente bicamerale di Julian Jaynes. Non che sia un accostamento troppo legittimo: avvicinare un padre della Chiesa del IV secolo con uno psicologo eterodosso del XX può sembrare avventuroso, e probabilmente lo è. Eppure mi sembra ci possa stare. Sono venuto a conoscenza dell’ipotesi della mente bicamerale leggendo il libro ‘Allucinazioni’ di Oliver Sacks. In un passaggio Sacks riassume la teoria di Jaynes, piuttosto scioccante, e ne parla bene, nei termini di un’ipotesi seria, degna di attenta considerazione. Siccome di primo acchito la teoria appare molto immaginifica, il rispetto portatole da Oliver Sacks mi ha sorpreso e incuriosito. Ho approfondito e ne è valsa la pena.
Jaynes parte dall’osservazione che mentre molte funzioni cerebrali sono ridondate, ovvero sono presenti in entrambi gli emisferi, lo stesso non vale per i principali nuclei deputati alla funzione linguistica, che di norma sono localizzati nel solo emisfero sinistro. Mentre, per fare un esempio, l’ippocampo, che è essenziale per la gestione della memoria episodica, è presente in entrambi gli emisferi, le principali aree cerebrali linguistiche, ovvero quelle di Broca e di Wernicke, sono sviluppate e attive principalmente nell’emisfero sinistro. C’è un doveroso caveat, non bisogna semplificare troppo: il linguaggio umano è una funzione complessa che interessa moltissime aree cerebrali diverse, ma queste due, insieme all’area motoria supplementare, sono quelle fondamentali.
Jaynes si chiede come mai la pressione evolutiva sul cervello umano abbia finito per dare vita a questo tipo di configurazione. In realtà almeno potenzialmente l’emisfero destro possiede le stesse strutture funzionali, solo che per qualche motivo non sono sviluppate. Tuttavia se un bambino piccolo patisce qualche disfunzione alle aree del linguaggio nell’emisfero sinistro, può accadere che queste siano vicariate dalle aree corrispondenti nell’emisfero destro, che in un certo senso è come se si riattivasse. Tra l’altro – nota Jaynes – i due emisferi si parlano, si scambiano informazioni, perché un efficiente collegamento tra di essi è garantito dal corpo calloso e dalle commissure, in particolare quella anteriore.
E allora perché noi oggi constatiamo uno sviluppo lateralizzato delle funzioni linguistiche? La risposta di Jaynes è originale. Secondo lui la coscienza umana così come la intendiamo noi, il nostro intramondo, è un fenomeno relativamente recente, riscontrabile solo a partire all’incirca dal primo millennio avanti Cristo. Prima di allora tutte le testimonianze letterarie, storiche e archeologiche lasciano intendere che fosse invalso un altro sistema di funzionamento che Jaynes chiama ‘mente bicamerale’. In questa configurazione le funzioni linguistiche erano attive in entrambi gli emisferi, ma l’emisfero destro generava delle voci allucinatorie che venivano recepite dall’emisfero sinistro e vissute dal soggetto come esterne, tendenzialmente imperative e riferibili generalmente a esseri divini. Una sorta di super-io divinizzato che invece di esprimersi in maniera episodica, è sempre attivo e presente. La possente voce degli dei di cui narrano pressoché tutte le religioni rivelate era quindi un fenomeno allucinatorio ‘normale’ che indirizzava la condotta degli uomini dicendo loro cosa dovevano o non dovevano fare. La legge morale kantiana parlava direttamente agli uomini nella forma di un’allucinazione verbale. La voce imperativa del dio, che noi oggi rileggendo i testi sacri interpretiamo come metafora o allegoria, era invece un’esperienza concreta vissuta e diffusa presso tutti gli uomini. Tutti sentivano la voce degli dei, anche se ognuno la sentiva a modo suo.
Nel giudaismo rabbinico, questa voce interna è chiamata bat kol, che letteralmente significa ‘figlia della voce’, e indica per l’appunto una voce divina che proclama il volere o il giudizio di Dio. Ed è diversa dalla profezia perché mentre nella profezia Dio ha un rapporto diretto e speciale con il profeta, bat kol è una voce che potenzialmente parla a tutti gli uomini indipendentemente dal loro livello di vicinanza a Dio. Esattamente ciò di cui parla Jaynes.
Nel periodo cui si riferisce l’Antico Testamento, la mente bicamerale è già in declino, e quindi la voce del Dio non parla più a tutti gli uomini, bensì solo ad alcuni eletti, solo ai profeti. Inoltre, questa voce si manifesta spesso senza che la sua origine, il Dio parlante, si renda visibile. Pensiamo al celebre episodio del Monte Sinai (Deuternomio 4:12): “Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura; vi era soltanto una voce. Egli vi annunciò la sua alleanza, che vi comandò di osservare, cioè i dieci comandamenti, e li scrisse su due tavole di pietra. A me in quel tempo il Signore ordinò di insegnarvi leggi e norme, perché voi le metteste in pratica nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso”. Oppure l’esperienza di Elia narrata nei Re (19:12-13): “E, dopo il terremoto, un fuoco; ma il Signore non era nel fuoco. E, dopo il fuoco, un mormorio di vento leggero. Quando Elia lo udì, si coprì la faccia con il mantello, andò fuori e si fermò all’ingresso della spelonca; e una voce giunse fino a lui e disse: «Che ci fai qui, Elia?»”.
O ancora, ecco cosa si legge in Geremia (25:30): “Tu profetizza loro tutte queste cose e di’ loro: ‘Il Signore rugge dall’alto, tuona la sua voce dalla sua santa abitazione; egli rugge con potenza contro il suo territorio. Un grido, come quello dei pestatori d’uva, arriva a tutti gli abitanti della terra”. Sempre di una voce tonante parla Gioele (3:16-17): “L’Eterno ruggirà da Sion e farà sentire la sua voce da Gerusalemme, tanto che i cieli e la terra tremeranno. Ma l’Eterno sarà un rifugio per il suo popolo e una fortezza per i figli d’Israele. Allora voi riconoscerete che io sono l’Eterno, il vostro Dio, che dimora in Sion, mio monte santo. Cosí Gerusalemme sarà santa e gli stranieri non vi passeranno piú». Infine, ecco un passaggio in Amos (1:2): “Egli disse: Il Signore ruggisce da Sion e da Gerusalemme fa udir la sua voce; sono desolate le steppe dei pastori, è inaridita la cima del Carmelo”.
Come detto, secondo Jaynes qui non siamo più nel pieno della civiltà bicamerale, e tuttavia questa voce veterotestamentaria, essendo un residuo della mente bicamerale, è ancora molto imperativa e arcigna. È un Dio che non accarezza e che non scherza, che dichiara le sue volontà senza troppi complimenti. La voce del Dio continua a manifestarsi anche nel Nuovo Testamento, ad esempio durante il battesimo e anche nella trasfigurazione di Gesù, ma il tono è molto diverso, più morbido e affettuosamente paterno: “Tu sei il figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento” (battesimo), e anche “Questo è il figlio mio, l’eletto, ascoltatelo!”. Siamo già molto lontani dalle asprezze degli imperativi bicamerali… Tutto questo limitandosi al testo biblico, ma testimonianze del genere sono riportate nei testi sacri di tutte le religioni rivelate.
Jaynes ci dice che questa voce intracosmica del Dio era innanzitutto un fenomeno allucinatorio prodotto da una configurazione cerebrale diversa da quella attuale. Naturalmente anche la società prodotta da una configurazione psichica di questo tipo era diversa dalla nostra sotto molti aspetti, innanzitutto perché era una società teocratica governata endopsichicamente dal volere degli dei, e quindi non aveva bisogno di una forte struttura statuale né di un sistema di leggi codificato che governasse la condotta degli uomini. Ognuno sapeva come comportarsi perché gli bastava seguire i comandi della sua voce interiore. Per Julian Jaynes la mentalità bicamerale è infatti soprattutto uno strumento di controllo sociale, peraltro molto efficiente. Per tutti i mammiferi superiori, e a maggior ragione per gli uomini, vivere in gruppi organizzati garantisce maggiori probabilità di sopravvivenza e una migliore qualità della vita, solo che il mantenimento della coesione sociale non è semplice, e la pressione evolutiva si incarica di selezionare le modalità più efficienti per garantirla: la mente bicamerale è appunto una di queste modalità.
Detto questo, è anche vero che alla fine del secondo millennio avanti Cristo la mente bicamerale e il suo modello di società vanno decisamente in crisi. Come mai? Jaynes si sofferma soprattutto su due cause scatenanti. Da una parte il lungo periodo di crisi sociali, guerre, catastrofi e migrazioni che caratterizzato il II millennio avanti Cristo e che mina alle fondamenta il sistema di controllo sociale garantito dalla mente bicamerale. Quando qualcosa non funziona più, si trasforma o viene sostituito. Inoltre anche l’avvento della scrittura, che consente di fissare su tavolette e altri supporti le leggi che regolano la vita della comunità, erode gradualmente l’autorità delle allucinazioni uditive. Ne segue quindi un lungo periodo di transizione, testimoniato con grande chiarezza dalle vicissitudini delle civiltà greca e mesopotamica di quel periodo. E qui si verifica un fenomeno sorprendente: in seguito a un processo di evoluzione della struttura cerebrale, le voci allucinatorie prodotte dall’emisfero destro perdono di intensità e gradualmente si trasformano in quella voce interiore che noi oggi chiamiamo ‘voce della coscienza’. Il dialogo interiore di cui tutti facciamo esperienza e che consideriamo quanto di più intimo e personale vi sia nella nostra vita, in realtà secondo Jaynes non è altro che il residuo evoluzionistico delle voci allucinatorie bicamerali. Se non è sorprendente un’affermazione del genere, cosa lo è?

Julian Jaynes
La prima reazione è spesso di incredulità e sconcerto: ma cosa ci sta raccontando questo stravagante psicologo americano? Julian Jaynes dev’essere completamente fuori di testa…. Eppure se ci pensiamo bene questa teoria ha il merito di mostrare sotto una luce completamente diversa sia le tipiche narrazioni delle religioni storiche sia moltissimi fenomeni altrimenti oscuri come per l’appunto le allucinazioni, molti aspetti della schizofrenia, la stupefacente efficacia dell’ipnosi e le capacità divinatorie possedute da alcune persone, fino ai compagni immaginari con cui si intrattengono molti bambini. Anche il tanto celebrato inconscio appare sotto una luce differente se considerato dal punto di vista di Julian Jaynes. E se davvero la nostra voce interiore fosse quel che resta della voce degli dei e avesse quindi ragione Agostino quando diceva che ‘in interiore homine habitat deus’? E se non fosse una metafora, se il dio ci abitasse veramente, nella coscienza, e da lì tuttora ci parlasse?